sabato 29 ottobre 2011

Il Pd molli l'Udc e si allei con noi. Ma non ci chieda di camuffarci

di Daniela Preziosi
su il manifesto del 28/10/2011

Parte il congresso del PdCI: la richiesta di un solo partito comunista col PRC

Diliberto, alla fine del vostro 6° congresso, che parte oggi a Rimini, il Pdci avrà un altro segretario? Lei è lì da 13 anni.
Lo auspicherei, lo asseconderei, ma non mi pare ci siano candidati. È possibile che io sia rieletto.

Alle politiche chiedete al Pd di concedervi l'apparentamento?
Non chiedo concessioni, propongo un accordo. Ed è una linea condivisa da tutta la Federazione della sinistra: negoziare con il Pd e con il centrosinistra un'alleanza innanzitutto per la difesa della democrazia, quindi per sconfiggere Berlusconi. E poi che consenta di ottenere alcuni punti programmatici qualificanti che ci impegnamo ad attuare: lavoro, scuola pubblica, fisco. Rosy Bindi rilancia sulla patrimoniale? Siamo d'accordo.

Immaginiamo che si voti con il porcellum. In pratica chiedete un'alleanza come quello che il Pd nel 2008 strinse con l'Idv?
Sì, un'alleanza politico-elettorale fra pari, non per numeri ma per dignità politica. Vogliamo presentarci con il nostro simbolo.

Accettereste, come si è letto, qualche posto nelle liste Pd?
No. E se qualcuno di noi l'accettasse sarebbe espulso dal Pdci.

Diliberia non si smentisce?
Non c'entra Diliberia, c'entra la serietà. Nessuno pietisce niente. Ma conosco i miei, questa possibilità non esiste. È una notizia messa in giro da tempo dai veltroniani per mettere in difficoltà Bersani.

Se Bersani non vorrà apparentarsi con una falce e martello, avete un piano B?
La linea del 2008, quella di Veltroni, non poneva neanche quel problema, il nostro simbolo era l'Arcobaleno. Semplicemente lui non voleva la sinistra. La linea che emerge dalla segreteria Bersani è invece un'alleanza con un nucleo di governo, e attorno ad essa tutti quelli che si vogliono battere contro Berlusconi. Siamo tra questi, ma senza camuffarci. I comunisti sono stati alleati con il Pd, anche nel governo. Oggi non ci sono le condizioni. Sulla guerra, per esempio, non siamo d'accordo. Ma su alcuni principi democratici sì.

Ferrero, il segretario Prc, dice che è disponibile a far nascere un governo del Nuovo Ulivo. Ma non gli garantisce l'esistenza a prescindere. Lei sì?
Ferrero è stato più volte esplicito anche sul fatto di garantirne l'esistenza, dopo la nascita.

Anche nel caso di un'eventuale missione militare?
Dipende da cosa si tratta. Se ci chiedono di bombardare Pechino votiamo no. Ma siamo pronti a un impegno fra persone serie, che non si mettono le dita negli occhi.

Ma il Pd sembra molto più interessato all'alleanza con i centristi. Cosa vi succederebbe?
È uno scenario che non mi voglio porre. I centristi hanno già detto che vanno da soli. A un certo punto bisognerà sommare tutti i voti per provare a vincere, e noi abbiamo dimostrato, anche da poco in Molise, che i nostri voti sono decisivi. I voti, non i sondaggi.

Non vi alleereste coi centristi?
Fra noi c'è un'incompatibilità reciproca. Ma, ripeto, è un'eventualità impossibile. Se andranno da soli, saranno l'ago della bilancia della prossima legislatura.

E voi siete disponibili a garantire la vita di un governo di centrosinistra ostaggio di Casini?
Dipenderà dai numeri. Lo valuteremo dopo.

Il Pdci celebra il suo congresso. Poi ci sarà quello del Prc. Per dare una vera svolta alla Federazione della sinistra, non dovreste sciogliere i vostri partiti?
In una federazione i soggetti sottostanti continuano ad esistere. Ma al congresso propongo di fare un unico partito comunista e di scioglierci entrambi. Naturalmente il Pdci è superabile nel momento in cui lo sarà anche il Prc. Ma noi siamo pronti.

E questo come si concilia con la proposta a Vendola di entrare nella Federazione? Tanto più che voi volete rimanere fuori dal governo, e Sel no.
Sono due profili diversi. Penso a tre cerchi concentrici: una è l'alleanza democratica con il Pd, poi c'è la federazione di tutta la sinistra, all'interno della quale c'è un unico partito comunista. Se andassimo insieme, noi e Sel, avremmo un risultato a due cifre.

Vendola ha spiegato che non si vuole chiudere nel recinto della sinistra tradizionale.
Vendola è di sinistra. E una proposta di sinistra può attrarre anche altri. Ma stiamo ai contenuti: su Fiom e Marchionne stiamo dalla stessa parte, così sulla guerra in Libia. Da qui dobbiamo ripartire per costruire una grande sinistra.

Ancora sulla Federazione: un'intera corrente del Prc si è iscritta al Pdci: che fate, vi rubate gli iscritti?
No, anzi, così questi compagni non si sono dispersi e sono rimasti nella Fds. Infatti col Prc non abbiamo affatto litigato per questo.

Fausto Bertinotti sembra tornato sulle posizioni del '98, quelle per cui vi siete scissi: oggi sostiene l'impossibilità di governare con una sinistra ridotta ormai a «ente inutile».
Se uno va a chiedere a un lavoratore se vuole essere rappresentato da qualcuno che conta o che influenza la politica, e che può cambiare la vita, o da chi sta fuori da tutto, sceglie il primo. Si è visto nel 2008 quando, stando fuori dall'alleanza, non ci ha votato nessuno.

Però subito dopo lo schianto del 2008 anche lei disse: 'mai con il Pd'. Cos'è cambiato?
La parola mai non appartiene al mio lessico, chiunque mi conosca lo sa bene. Quel Pd era il Pd di Veltroni, che ci aveva escluso. Ma il Pd è la parte più grande del centrosinistra. Solo uno sciocco può dire 'mai con loro'.

Parteciperete alle primarie?
Proporrò al mio partito di partecipare. Sono un pezzo della campagna elettorale, chi sta fuori è invisibile, e sono il momento in cui si stabiliscono i confini dell'alleanza. È probabile che voteremo Vendola. Ma voglio prima parlare con i miei alleati della Federazione.

La sinistra politica non è affatto protagonista di questa grande stagione di movimenti, dai referendum ai sindaci, ai lavoratori, agli indignati. Siete fuori gioco?
È uno dei nostri tanti limiti. Manca un soggetto politico che raccolga tutte queste diverse spinte positive, e dia loro rappresentanza. E questo deve essere uno dei nostri prossimi cimenti.

Fonte: Essere Comunisti

Acqua, fare come Napoli

di Paolo Ferrero
L'approvazione della gestione pubblica del ciclo integrato dell'acqua a Napoli, votata pochi giorni fa quasi all'unanimità dal Consiglio comunale partenopeo, con l'istituzione dell'Abc (Azienda Bene comune Napoli) è un fatto politico di valore nazionale. È stato premiato l'impegno del movimento ambientalista che ha portato alla vittoria referendaria dello scorso giugno.
Il provvedimento sottolinea inoltre il valore politico della svolta operata a Napoli con la vittoria di De Magistris e della coalizione che l'ha sostenuto. Si è decisa infatti la costituzione di un'azienda speciale integralmente pubblica che attua la ripubblicizzazione dell'intero ciclo, seguendo l'esperienza virtuosa di Parigi, con un soggetto pubblico che garantirà tra l'altro il diritto al minimo vitale di acqua - pari a 50 litri al giorno - per i cittadini in condizione di disagio sociale e la presenza di due esponenti del movimento ambientalista nel consiglio d'amministrazione.
Il percorso per la totale ripubblicizzazione del ciclo integrato a Napoli ha visto la battaglia del Prc sin dal 2004. All'epoca, sulla base della normativa vigente, per due volte l'Ato (Ambito territoriale ottimale) tentò di mettere a gara il servizio gestito dalla Arin (Azienda Risorse Idriche napoletane) Spa, e su iniziativa dei movimenti e di Rifondazione in giunta e nel consiglio, si riuscì a convincere il sindaco Jervolino a fermare la gara. Successivamente, nel 2009, si aprì una battaglia che puntava a realizzare un'azienda integralmente pubblica come ente di diritto pubblico.
Tuttavia l'inconcludenza dell'amministrazione precedente non portò a nulla, al punto che nel settembre 2010 il rappresentante Prc nel consiglio dell'Arin si dimise per l'impossibilità di realizzare quanto concordato. La delibera approvata negli scorsi giorni rappresenta dunque una grande innovazione giuridica e politica, perché, come si legge nello statuto, l'Abc è un ente di diritto pubblico, un'azienda speciale, che gestisce interamente il ciclo: dalla captazione alla depurazione, fino alla distribuzione, sciogliendo di fatto aziende preesistenti come l'Arin Spa e il consorzio della depurazione.
È la prima volta in Italia che si attua pienamente lo spirito del referendum, in quanto l'abrogazione del famigerato articolo 23 bis del Decreto Ronchi rende possibile l'attuazione dell'azienda speciale proprio come ente di diritto pubblico. Questo è un punto fondamentale perché vuol dire che la battaglia fatta con il referendum - a cui il governo non vuol dare alcun seguito - può essere ripresa dai territori, dalle amministrazioni locali. Inoltre, nello statuto dell'Abc vi è il principio della democrazia partecipativa che prevede spazi per i movimenti per l'acqua pubblica sia nella fase di indirizzo (ovvero nel comitato di sorveglianza) che, come già spiegato, nella fase di gestione (con due membri nel Cda) e il principio della gratuità del minimo vitale quotidiano per i soggetti svantaggiati, come previsto dalla normativa europea.
La delibera di Napoli deve quindi essere solo un primo passo da estendere in tutta Italia. Occorre quindi rilanciare - a partire dalla manifestazione del 26 novembre prossimo - la battaglia per l'acqua pubblica, con una semplice parola d'ordine: fare come Napoli, che ha dimostrato che l'acqua pubblica non solo è necessaria ma è possibile. Utilizziamo l'esempio di Napoli per fare un passo in avanti e rompere quella sensazione di impotenza che rischia di anestetizzare la realtà sociale.
Fonte: Liberazione

giovedì 27 ottobre 2011

Occorre riprendere la mobilitazione per un movimento di massa antiliberista



Di Massimo Rossi

Nonostante la grande partecipazione popolare, la manifestazione degli Indignados del 15 ottobre scorso non ha potuto realizzarsi come grande spazio pubblico nel quale potesse prendere forma e contenuto un forte e largo movimento antiliberista di massa. Gli atti di teppismo e violenza, nonché l’uso sconsiderato della repressione in Piazza San Giovanni da parte della polizia, hanno finito per oscurare le ragioni dei manifestanti. Proprio perché in gioco è la possibilità stessa che possa nascere nel nostro paese una opposizione politica e sociale alle politiche della “troika” (Commissione Europea, Banca Centrale Europea e Fondo Monetario Internazionale) di dimensioni di massa riteniamo fondamentale spezzare la dinamica violenza/repressione nel quale le forze di governo vorrebbero rinchiuderci.

Il successo della manifestazione della Fiom il 21 Ottobre (sciopero della Fincantieri e della Fiat e manifestazione in piazza del Popolo a Roma) e della manifestazione contro la Tav del 23 ottobre in Val di Susa dimostrano che è forte la volontà di rompere quella morsa e riproporre al centro i contenuti della lotta e il protagonismo diretto dei lavoratori e delle lavoratrici nonché della popolazione.

La Federazione della Sinistra ha dimostrato con la preparazione e la sua presenza organizzata il 15 ottobre, nonché alle successive manifestazioni della Fiom e in Val di Susa (in questo caso unica forza politica presente), di essere parte significativa e indispensabile di un processo unitario per il rilancio del movimento e delle lotte.

Per questa ragione abbiamo invitato ad organizzare assemblee di discussione e di confronto sui fatti del 15 ottobre e sulle prospettive del movimento con l’obiettivo di valorizzare e non disperdere il tessuto unitario di chi – autofinanziandosi – aveva deciso di venire a Roma. Il post 15 ottobre deve essere affrontato allargando lo sguardo a ciò che in quel giorno è avvenuto nel mondo. In oltre cento paesi di tutti e cinque i continenti si è manifestato contro i responsabili della crisi e le loro ricette economiche che vorrebbero imporre ai popoli. Questa consapevolezza di essere dentro un movimento internazionale – che ha contenuti radicali e pratiche inclusive – deve spingerci a reggere il contraccolpo negativo dei fatti di Roma e a rilanciare l’iniziativa.

Dall’”attendamento”, ad eleggere in ogni città una “piazza della partecipazione e democrazia”, al ripetersi organizzato di manifestazioni davanti alle banche e alle sedi della CONFINDUSTRIA, al collegamento diretto alle lotte degli studenti e dei precari, ai presidi davanti alle fabbriche in lotta, è possibile lavorare per unire le soggettività che resistono alle politiche governative e della Bce. La manifestazione dei pensionati della Cgil del 28 ottobre a Roma acquista – in una fase in cui su pressione della Commissione Europea ci si appresta a manomettere in modo definitivo la previdenza pubblica – può avere un grande valore simbolico alla luce del fatto che anche il Pd con Enrico Letta si è dichiarato favorevole all’innalzamento dell’età pensionabile.


Il 3 Novembre a Nizza si svolgerà la manifestazione internazionale contro il vertice del G20 alla quale la FDS parteciperà con una propria delegazione e con una presenza delle nostre realtà liguri.

Il 26 Novembre, la manifestazione indetta dal Forum per l’acqua pubblica avrà come obiettivo di richiedere l’attuazione della volontà popolare espressa negli oltre 26 milioni di Si all’abrogazione delle leggi che hanno privatizzato la risorsa idrica. Si tratta di costruirla dal basso, evidenziando territorio per territorio i ritardi o la mancanza di volontà anche delle amministrazioni di centrosinistra di non ripubblicizzare la risorsa idrica.

Fonte: Federazione della Sinistra

martedì 25 ottobre 2011

Il ruolo genocida della NATO

di Fidel Castro

Questa brutale alleanza militare si è trasformata nel più perfido strumento di repressione che la storia dell’umanità ha mai conosciuto. La NATO ha assunto questo ruolo repressivo tanto rapidamente quanto la URSS, che era servita agli Stati Uniti come pretesto per crearla, ha smesso d’esistere.

Il suo criminale proposito divenne evidente in Serbia, un paese d’origine slava, il cui popolo lottò molto eroicamente contro le truppe naziste nella Seconda Guerra Mondiale.

Quando nel marzo del 1999 i paesi di questa nefasta organizzazione, nei loro sforzi per disintegrare la Yugoslavia dopo la morte di Josip Broz Tito, inviarono le loro truppe in appoggio ai secessionisti del Kossovo incontrarono una forte resistenza in quella nazione le cui sperimentate forze erano intatte.

L’amministrazione yankee, con i consigli del Governo di destra spagnolo di José María Aznar, attaccò l’emittente televisiva della Serbia, i ponti sul fiume Danubio e Belgrado, la capitale di questo paese. L’ambasciata della Repubblica Popolare della Cina fu distrutta dalle bombe yankee, vari funzionari morirono, e non ci potevano essere errori possibili, dichiararono gli autori.

Numerosi patrioti serbi persero la vita. Il presidente Slobodan Miloševiс, schiacciato dal potere degli aggressori e dalla scomparsa della URSS, cedette alle esigenze Della NATO e ammise la presenza delle truppe di questa alleanza nel Kossovo con un mandato Della ONU e questo finalmente portò alla sua sconfitta politica e al suo successivo giudizio in tribunali per niente imparziali a L’Aia. È morto stranamente in prigione.

Se il leader della Serbia avesse resistito alcuni giorni ancora, la NATO sarebbe entrata in una grave crisi che era al punto di scoppiare. L’impero dispose così di molto più tempo per imporre la sua egemonia tra i sempre più subordinati membri di questa organizzazione.

Tra il 21 febbraio e il 27 aprile di quest’anno, ho pubblicato nel sito web CubaDebate nove Riflessioni sul tema, nelle quali ho ampliamente analizzato il ruolo della NATO in Libia e quello che secondo me sarebbe successo.

Per questo mi vedo obbligato ad una sintesi delle idee essenziali che ho esposto e dei fatti che sono avvenuto così come erano stati previsti, adesso che il personaggio centrale di questa storia, Muammar Al-Gaddafi, è stato ferito gravemente dai più moderni cacciabombardieri della NATO, che hanno intercettato e reso inutile il suo veicolo, lo hanno catturato vivo e assassinato per mano degli uomini che questa organizzazione militare ha armato.

Il suo cadavere è stato sequestrato ed esibito come un trofeo di guerra, una condotta che viola i più elementari principi delle norme musulmane e di altri credo religiosi che prevalgono nel mondo.

Si annuncia che molto presto la Libia sarà dichiarata “Stato democratico e difensore dei diritti umani”.

fonte:granma.cu

Default sicuro: fallito il piano di salvataggio della Grecia

La Grecia è fallita. A dirlo non è l’ennesimo studio di banche d’investimento o centri di ricerca, ma direttamente i funzionari della troika che hanno appena terminato la loro revisione sulla finanza pubblica ellenica. “Linkiesta” è entrata in possesso dell’intero rapporto della troika, composta dai funzionari di Fondo monetario internazionale (Fmi), Banca centrale europea (Bce) e Commissione europea. “Strictly confidential” è scritto su ogni pagina. (per scaricare il rapporto della Troika clicca qui) E ce ne sono tutte le ragioni. Il quadro che emerge dalla Dsa (Debt sustainability analysis) sulla Grecia non è roseo. Le dieci pagine che siamo in grado di mostrarvi parlano chiaro.

Certo, l’Eurogruppo ha accordato il pagamento della sesta tranche (8 miliardi di euro) di aiuti finanziari previsti dal piano di salvataggio del maggio 2010, pari a 110 miliardi di euro, ma appare sempre più chiaro che lo ha fatto assumendosi diverse responsabilità. Questo perché la troika ha spiegato senza troppi giri di parole che il debito greco è insostenibile. L’unica soluzione all’orizzonte è quindi quella di un aumento dell’intervento dei creditori privati, tramite il Private sector involvement (Psi), e, di conseguenza, un lungo piano di ristrutturazione del debito. Il ritorno sui mercati è atteso nel 2021, quando il rapporto debito pubblico/Prodotto interno lordo (Pil) tornerà sotto quota 150 per cento. Fino a quella data, secondo il rapporto della troika, saranno necessari 252 miliardi di euro per garantire la sopravvivenza di Atene, nel migliore dei casi. Nel peggiore, altri 444 miliardi di euro, più dell’attuale valore del fondo europeo salva-Stati “European financial stability facility” (Efsf).
In altre parole, considerando l’intervento del maggio 2010, l’intero debito ellenico, 365 miliardi di euro, dovrà essere messo in sicurezza da qui al 2030. Dopo diverse settimane di attesa, la troika ha concluso la sua ultima verifica ad Atene. Nonostante le rassicurazioni del ministro delle Finanze ellenico Evangelos Venizelos, che ancora cinque giorni fa parlava di «sensazioni positive riguardo alla troika», il rapporto finale lascia senza fiato. Semplicemente, niente va come dovrebbe andare. Il debito pubblico, attualmente al 160% del Pil, toccherà quota 186% nel 2013 e solo nel finale del 2020 scenderà sotto il 152%, soglia considerata cruciale per il rientro di Atene sui mercati internazionali. Ancora, solo nel 2030 il rapporto debito/Pil sarà sotto il 130 per cento. Chiaramente insostenibile, sebbene lo stesso Venizelos abbia più volte rimarcato che «il Paese è su una buona strada».
C’è poi il capitolo privatizzazioni. Sui circa 46 miliardi di euro che dovevano essere raccolti da luglio a oggi, solo 10 sono entrati nelle casse del Tesoro di Atene. E pensare che inizialmente il programma del 21 luglio, completamente smontato dalla troika, aveva previsto ricavi per 66 miliardi di euro (50 miliardi di asset governativi più 16 miliardi di asset derivanti dalle ricapitalizzazioni bancarie). Niente di tutto questo è stato rispettato, finora, né riuscirà a essere raggiunto, spiega la troika, senza un programma di consolidamento fiscale più duro che mai.
Infine, la ristrutturazione del debito. L’accordo del Consiglio europeo del 21 luglio scorso prevedeva un haircut, cioè un taglio al valore nominale dei bond detenuti in portafoglio, del 21 per cento. L’accordo, sottoscritto dall’”Institute of international finance” (Iif), la lobby bancaria internazionale, fin da subito è apparso troppo blando per ristorare il debito greco. Dei 365 miliardi di euro di stock complessivo, solo 135 erano impegnati nel rollover, cioè il concambio peggiorativo, con un impegno da parte delle banche creditrici di circa 37 miliardi. Troppo poco.
La troika propone due soluzioni: o un taglio del 50%, capace di riportare il debito sotto quota 120% nel finale del 2020, o un haircut del 60%, che porterebbe il debito sotto il 110% nel 2020. In entrambi i casi, ci sarebbero dei costi per la comunità internazionale. Tralasciando quelli sociali e quelli creditizi a carico delle banche esposte sulla Grecia, per Atene il supporto finanziario dovrebbe essere di 113,5 miliardi di euro per il ventennio 2011-2030 nel caso di un haircut del 50% e di 109,3 miliardi in caso di taglio del 60 per cento. Qualsiasi scelta si prenda nel prossimo vertice europeo, ci sono due certezze: la Grecia è fallita e il suo default non sarà indolore.
fonte: No Censura

Decisa posizione anti-europea della Norvegia

Mentre monta la paura della crisi del debito tra i leader europei le notizie che arrivano dalla Norvegia sul no all’Unione Europea sembrano ancora più fondate.

L’ipotesi dell’ingresso della Norvegia nell’UE ha avuto un andamento a spirale verso il basso in questo ultimo anno tra gennaio e giugno,per il risultato dell'ultimo sondaggio solo il 18% dei votanti si dichiara favorevole.

"Certo che deve essere difficile fare una campagna per l’ingresso della Norvegia nell’UE in questo periodo!", dice Heming Olaussen, leader dell’ organizzazione "No all’UE" [dichiarazione rilasciata al giornale Nationen].

I risultati arrivano al momento opportuno per il primo ministro Jens Stoltenberg, che ha deciso di seppellire la questione dell’ingresso nell’UE e dell'euro almeno due settimane fa. "Voglio trascorrere la mia vita per qualcosa di più produttivo che non per una Norvegia che abbia a che fare con l’euro", aveva dichiarato a Klassekampen.[quotidiano della sinistra radicale norvegese].

Secondo Olaussen, dire ‘no’ all’ euro è anche una risposta di fatto alla questione dell’ingresso nell’UE. A proposito sondaggio dice: “C’è stata una maggioranza di ‘no’negli ultimi sei anni e mezzo, ma l’incremento che stiamo vedendo ora è un effetto ulteriore dovuto alla crisi dell’UE e all’inefficacia della strada dell’UE stessa per uscirne”.

Sull’altra sponda del mare del nord, Paal Frisvold, leader del Movimento Europeo in Norvegia, ha detto al Foreigner, “Per quanto io sia fiducioso sul superamento della crisi, capisco comunque che l’euro sta subendo una pressione tale per cui l’impressione che ne consegue crea buoni argomenti contro l’ingresso nell’Unione Europea.”

La sua visione da Bruxelles è che ora “non è il momento per guardare a un ingresso nell’UE, ma di concentrare gli sforzi su come risolvere la crisi dell’UE”.

“Non biasimo la reazione di colore che sostanzialmente si basano sulla lettura della prima pagina del giornale, anch’io in questo momento mi opporrei all’ingresso nell’Unione Europea, ma non è il momento per trarre delle conclusioni”.

Link correlati:

http://theforeigner.no/pages/news/clouds-on-the-horizon-for-norway/

Fonte: Contro La Crisi

Nicoletta Dosio (No Tav): "Le lodi non ci toccano. Continueremo a tagliare le reti"

Tutti dicono che siete stati bravi, facendo finta di non capire che la lotta va avanti.
Sì certo, la lotta va avanti. Niente è cambiato per noi nel senso che la nostra manifestazione di domenica è soltanto uno dei tanti momenti di una lotta che dura da ventidue anni e che durerà fin quando questa enorme e distruttiva mala opera non tramonterà definitivamente. Già nel 2005 tentarono di annacquare l’esperienza di una lotta alta con i tavoli di concertazione ma non ci riuscirono. Se vengono espresse anche in questo momento lodi assolutamente pelose da chi vuole continuare a fare la Tav, dal Pd al Pdl, beh queste lodi non ci fanno sinceramente né caldo e né freddo. Avanti per la nostra strada di resistenza quotidiana con i presidi contro le reti, e controinformazione, per esempio con i “no tav tour”, con gli interventi che ci vengono chiesti da tutte le parti d’Italia. Troviamo compagni in ogni posto che andiamo, e spieghiamo loro che senza deleghe e con una azione reale si può fermare questa distruzione portata avanti da un capitale sempre più agguerrito che usa la crisi in senso antioperaio contro i diritti dei territori e della collettività per mettere in ginocchio una società che merita di trovare uno sbocco di liberazione.

Quindi, no-Tav ancora in azione…
Andremo alle reti non solo ogni quindici giorni ma anche realmente e non metaforicamente. Questa lotta ci ha fatto capire che chi è con noi deve essere nostro compagno di strada realmente e non essere imbonitore. E’ il momento questo che men che meno serve delegare. Domenica, anche nelle situazioni più difficili il popolo c’è stato. E la nostra è una lotta di storie diverse che si unificano contro il modello di sviluppo di guerra e di rapina.


La vostra critica alla Tav è molto concreta. E’ un terreno che il potere non ha mai accettato…
Concretamente si vede che la Tav ha eliminato i treni intercity e i regionali che avevano un prezzo contenuto. Chi vuole andare da Torino a Roma deve per forza prendere la Frecciarossa. Noi una linea internazionale ce l’abbiamo già. Le corse le hanno eliminate perché non avevano clienti. Il problema nostro è spostarsi nell’ambito locale. Se pensiamo che la rete ferroviaria italiana è ancora a binario unico per i due terzi. Se pensiamo che con il piano Necci hanno chiuso le officine di manutenzione capiamo bene quale modello abbiano in testa. Con quel piano cominciò a farsi strada il business dell’alta velocità. E noi qui capimmo che la chiusura di Bussoleno era l’altra faccia del piano dell’alta velocità.


Pensare di costruire in Val Susa la Tav è un po come tentare di replicare la guerra in Vietnam…
E’ una follia. Rimarranno impantanati. Ci stiamo opponendo alla Tav e, come cittadini, ci opponiamo da subito alle spese per la militarizzazione del territorio attraverso l’impiego delle forze dell’ordine. Ce ne sono stabilmente almeno un migliaio che costano 90mila euro, senza contare l’ammortamento dei mezzi, e l’elicottero che costa 4mila euro l’ora. Per la giornata di domenica hanno buttato 500mila euro. E poi ci vengono a dire che i bambini non hanno più la carta igienica nelle scuole.


Voi andate avanti. E va bene. Ma qualcosa sta cambiando?
Ieri abbiamo notato che c’è proprio un cambiamento culturale rispetto alla nostra lotta. I grandi mezzi di informazione che sono arrivati in massa volevano capire stavolta e non costruire delle montature. Questo potere che arriva sempre più armato contro di noi dimostra di essere sempre più debole. Siamo già i vincitori morali. Una lotta popolare e colorata sta avendo ragione degli schieramenti politici e militari. In valle stanno già facendo numerosi scempi e non hanno ancora iniziato a perforare. La rete ha provocato la morte di molti animali, che ci sono andati a finire contro. Le ruspe hanno schiantato molti alberi. Senza contare che proprio sotto gli occhi delle forze dell’ordine sono al lavoro operai senza le necessarie protezioni antinfortunistiche.

Fonte: Contro la Crisi

La liberazione della Maddalena sarà vita e libertà

Alcune immagini dall'altro capo del filo rosso di resistenza NO TAV che nella giornata del 23 ha ribadito la propria forza e l'irriducibilità della lotta popolare contro la grande mala opera.
La generosa difesa della Baita Clarea, da parte di un pugno di donne e uomini che hanno deciso di rimanere all'interno della cosiddetta zona rossa per impedire (o almeno documentare) arbitrii e danneggiamenti.
Il "cantiere che non c'è" che dalle prime ore del 22 è andato riempiendosi di armati, blindati, mezzi d'assalto; le centinaia di uomini in assetto antisommossa, usciti dal fortino per allargarsi intorno alla baita, attraverso i boschi, accompagnati dall' insistente ronzare dell'elicottero.

La notte violentata dai fasci di luce delle torri-faro, cadenzata dai passi delle ronde.

E l'alba livida della mattina del 23, con il posizionarsi delle truppe lungo le reti del fortino, sul ponte e sulle rive del Clarea.
Verso le sette del mattino, dai cancelli sotto i piloni e alle vasche dell'autostrada, escono sferragliando le ruspe per spianare la via alla repressione. Il primo a cadere è il grande gazebo che per notti e giorni ha protetto i nostri turni alle reti, ed ha dato riparo ai digiunatori; poi sono gettati giù dal pendio i materiali delle barricate, lo scheletro del camper NO TAV bruciato dalle truppe d’occupazione il 27 giugno dopo la presa della Maddalena, la roulotte che aveva accompagnato e dato supporto alla costruzione della baita.

L’avanzare delle ruspe travolge le macchie dei noccioli e i giovani polloni dei castagni, schianta le chiome dei ciliegi che si protendono sul sentiero, sconquassa i muretti a secco e apre crepe nel fondo stradale a lose, costruito con perizia e fatica da coloro che per centinaia d’anni, in questi luoghi, coltivarono e protessero vigne e castagneti. Quando tace lo sferragliare dei mezzi, si possono sentire le voci del bosco ferito; l’acuminato trillo dei pettirossi ci dice il coraggio della vita che resiste, che neanche i loro veleni e la loro violenza riusciranno a spegnere.
Avvertiamo intorno a noi crescente tensione e nervosismo; intravvediamo sguardi ostili o assenti,come se dietro l’esibizione di muscoli ci fossero timore e insicurezza.
A un certo punto un graduato ci consiglia di mettere al sicuro le tende del piccolo campeggio lungo il Clarea: non può garantire sul comportamento di quelli che lui chiama i suoi “cani sciolti”…

La situazione è surreale come un inquietante sogno in cui ti senti insieme attore e spettatore impotente.
La mattina avanza lenta; dai telefonini ci giungono le notizie della manifestazione in marcia, delle reti tagliate.

Ci avviciniamo al Clarea: sappiamo che tra poco non saremo più una decina, ma decine di migliaia; abbiamo portato le bandiere NO TAV e il megafono per accogliere degnamente il popolo NO TAV che viene a liberarci. Intoniamo Bella Ciao.
Davanti a noi sul ponte e lungo il torrente, sta immobile la truppa schierata, In alto, tra i boschi, intravediamo il riflesso dei caschi blu e neri.
Il ronzio dell’elicottero si avvicina, poi diventa rombo e la sua sagoma compare nello spicchi di cielo che ci sovrasta…Ed ecco che il bosco e il greto del torrente si animano… spuntano le prime bandiere, si agitano mani, risuonano voci di saluto.

Rivivo le sensazioni del 2005: quella che ci sta venendo incontro è la stessa marea colorata che il 31 ottobre salì a dare aiuto e speranza al pugno di resistenti del Seghino, quella che l’8 dicembre scese dai pendii di Venaus e abbattè le reti del cantiere, scompigliando una partita che sembrava ormai giocata e mandando in fumo le certezze arroganti della lobby del TAV.
Anche questa volta le truppe hanno perso. Sono nipoti, figli, fratelli, amate figlie e sorelle coloro che ci abbracciano e ci fanno commuovere….

Il resto è storia documentata e ampiamente raccontata da immagini e parole.
Tra tanta gioia un dolore, il cerbiatto trovato dai manifestanti, con le gambe spezzate e ormai agonizzante, nei boschi sopra il Clarea: evidentemente, disturbato dalle ronde nella notte, aveva cercato di fuggire attraverso il bosco che, per queste creature tipicamente diurne, diventa col buio luogo di trabocchetti mortali.

La liberazione della Maddalena sarà vita e libertà non solo per gli esseri umani, ma anche per gli alberi, per gli animali cui le reti del fortino costituiscono barriere invalicabili sulla via verso l’acqua, verso i pascoli che sono loro da sempre.

Nicoletta Dosio

lunedì 24 ottobre 2011

Val Susa, messaggio all’Italia: no al debito, tagliamo la Tav

La Torino-Lione sarebbe la grande opera dei record: la più costosa della storia italiana e, secondo i No-Tav, anche la più inutile: «Almeno 40 miliardi di euro buttati, per una linea ferroviaria che non servirà mai a nessuno».
Qualche cifra: la ferrovia che la valle di Susa non vuole costerebbe 5.000 euro al centimetro. Per capirci: 4 centimetri di Tav sono un anno di pensione, 3 metri di binario una scuola materna, 500 metri un ospedale. Il 23 ottobre, nel giorno in cui Sarkozy e la Merkel ridono di Berlusconi in mondovisione mentre Van Rompuy annuncia che l’Italia avrà tre giorni di tempo per decidere di privatizzare i beni comuni e tagliare il welfare, dalla valle di Susa arriva un’indicazione opposta: l’unico taglio ammissibile è quello delle reti della “zona rossa”, l’area off limits destinata al futuro cantiere, gigantesco monumento allo spreco decretato dalla lobby finanziaria che sta piegando l’Europa, in spregio a tutti i suoi popoli.

Un’altra Europa è possibile: questo il messaggio corale che la valle di Susa consegna alla cronaca italiana, chiudendo senza nessun incidente la Giaglione, 23 ottobre: il taglio delle reti della "zona rossa"settimana più difficile della lunga storia del movimento No-Tav, aperta dagli scontri del 15 ottobre a Roma che hanno rimbalzato tutto il fuoco mediatico sull’opposizione alla Torino-Lione. Un tam-tam ossessivo, per criminalizzare la protesta: «I black bloc che hanno devastato Roma si sono addestrati in valle di Susa durante l’estate». Risultato: invasione di giornalisti e troupe, dirette televisive già alla vigilia, portavoce No-Tav trasformati in “sherpa” mediatici per guidare i reporter sui luoghi della resistenza civile e raccontare ancora una volta le ragioni della protesta e lo stile ormai ventennale di un’autentica opposizione popolare, unica in Italia. La macchina della paura non ha funzionato: domenica 23 ottobre, sui sentieri del bosco tra Giaglione e la Maddalena di Chiomonte hanno sfilato migliaia di manifestanti pacifici, almeno 15.000 secondo il presidente della Comunità Montana, Sandro Plano, presente al corteo con gli amministratori locali insieme a personalità come Giorgio Cremaschi della Fiom, Giulietto Chiesa e l’ex ministro Paolo Ferrero.

Sulle barricate, molti dissidenti del Pd come lo stesso Plano, il sindaco di Venaus Nilo Durbiano e Carla Mattioli, sindaco di Avigliana: «Stiamo conducendo una tenace resistenza politica per spiegare al nostro partito che la Torino-Lione è un’opera totalmente assurda, devastante per il territorio, avversata dalla popolazione e finanziariamente insostenibile, costosissima e totalmente inutile: tutti gli studi dimostrano che l’Italia e la Francia non hanno bisogno di un nuovo collegamento merci, figlio di un progetto obsoleto e risalente all’epoca in cui l’Europa credeva ancora in quel tipo di espansione». C’è di più: «La lotta della valle di Susa – sottolinea Cremaschi – dimostra che i popoli europei non approvano questa Unione Europea dominata dalla Bce e dalle lobby finanziarie che emettono diktat a cui i Il corteo No Tav del 23 ottobre in val Susagoverni dovrebbero piegarsi: dev’essere chiaro a tutti che chi sta con la Bce, cioè con Marchionne, la Marcegaglia, Berlusconi e la Tav, non sta dalla nostra parte».

Insieme a Ferrero, Giulietto Chiesa era presente in valle di Susa già allo sgombero della “Libera Repubblica della Maddalena”, conquistata dalla polizia il 27 giugno a colpi di lacrimogeni: «Sono grato alla valle di Susa perché ci farà risparmiare almeno 20 miliardi di euro», dice Chiesa. «E’ evidente che i soldi per la Torino-Lione non esistono e che quella linea ferroviaria non si farà mai, così come è chiaro il valore della resistenza popolare della valle di Susa: una avanguardia civile italiana ed europea, che con la sua lotta nonviolenta dimostra l’importanza decisiva di un impegno cruciale, data la posta in gioco: il futuro di tutti noi e dei nostri figli, di fronte a una oligarchia finanziaria che sta cancellando la democrazia e vorrebbe imporci la stessa “cura” inflitta alla Grecia, con i beni pubblici privatizzati, grazie all’alibi di un debito largamente incoraggiato e creato dagli stessi organismi che ora pretendono “sacrifici” inaccettabili e, al tempo stesso, insistono con lo spreco scandaloso di grandi opere che sanno perfettamente inutili come la Torino-Lione».

Questo è il punto: la valle di Susa parla a nome dell’Italia dei referendum, quella che è scesa in campo a giugno contro la “casta”, e che ora la Bce e l’Unione Europea vorrebbero semplicemente cancellare. Rispetto alla minaccia epocale che incombe sul proprio futuro, l’Italia appare indifesa: il governo Berlusconi balbetta, ridicolizzato da Francia e Germania, mentre l’opposizione invoca un esecutivo «serio», cioè spietato e più pronto a eseguire le direttive impartire da Van Rompuy, oscuro politico belga che il gruppo Bilderberg – élite della finanza mondiale, responsabile dello sfacelo – ha messo a capo dell’Unione Europea con un mandato chiaro: spremere cittadini e lavoratori, tagliare istruzione e pensioni, demolire lo Stato sociale su cui si è basata la cittadinanza europea per mezzo secolo e depredare i servizi pubblici, che Bruxelles “raccomanda” di “liberalizzare”, ovvero Donne No-Tav in prima fila, "armate" di cesoiesvendere ai grandi gruppi industriali e finanziari, gli stessi che predicano “ripresa” e “crescita”, anche ora che i popoli sono chiamati a pagare per il frutto avvelenato della speculazione bancaria e della crescita drogata dei consumi superflui: il debito.

«Il default degli Stati fa il paio con l’altro default, quello della Terra», ripete Cremaschi: «Non possiamo più accettare un modello di sviluppo che devasta le risorse del pianeta». Ecco perché anche in questo la battaglia popolare della valle di Susa si rivela profetica: se il potere politico, industriale e finanziario ripropone lo stesso sviluppo-truffa capace solo di produrre maxi-profitti per pochi e debito per tutti a scapito dei territori, è doveroso dire “no”. Alberto Perino, portavoce del “popolo No-Tav”, è felice dell’esito della mobilitazione del 23 ottobre: «Abbiamo simbolicamente “tagliato le reti” e dimostrato che la nostra è una lotta nonviolenta». Sollievo anche da parte della polizia, che alla vigilia ha creato un efficace “filtro” per escludere il rischio di infiltrazioni violente, ma poi – di fronte al corteo pacifico di migliaia di montanari – ha evitato qualsiasi prova di forza, limitandosi a controllare da vicino il libero afflusso di manifestanti nella “zona rossa”, rispettando la loro libertà di manifestare.

Sottratta la valle di Susa al tetro folklore della guerriglia, il 23 ottobre 2011 resta una pietra miliare – data la sovraesposizione mediatica dopo i disordini di Roma – ma anche un bivio cruciale: i politici che fino alla vigilia “gufavano” temendo il peggio e invitando i cittadini a restare a casa, di fronte al bilancio positivo della giornata sul piano dell’ordine pubblico fingono che il problema sia risolto, dando per scontato che «la Torino-Lione si farà, perché si deve fare». Sbagliato: la valle di Susa, come l’Italia dei referendum, ribadisce che di scontato non c’è più niente, nell’Italia del 2011: «Fra sei mesi – ipotizza Giulietto Chiesa – la situazione finanziaria generale sarà così drammatica che nessuno si potrà più permettere di ripetere allegramente che in valle di Susa si “dovranno” sprecare miliardi per un’opera inutile». Si profila una grande partita politica: «A pensarla così siamo milioni, solo che non siamo ancora rappresentati», dice ancora Giulietto Chiesa, convinto che la valle di Susa sia «un modello perfetto, da esportare: se ci fossero dieci, venti, cento valli di Susa, oggi l’Italia sarebbe un paese migliore, con più dignità e più speranza davanti a sé».

Fonte: Libre Idee

domenica 23 ottobre 2011

Malcom X e il lavoro negro

OGGI ho seguito in video - cinque ore dei discorsi di MALCOM X - e ho preso appunti come una cronista del mio tempo. rileggendo quanto ho ascoltato dal LEADER AFRO AMERICANO - e sostituendo NEGRO con OPERAIO - il tutto, torna attuale - drammaticamente attuale... tanto che si puo' dire che il RAZZISMO legato al colore della pelle passerà a breve in secondo piano, lasciando il passo ad un RAZZISMO tra poveri contro poveri, dove il sottoproletariato si annientera' se non comprende realmente dove risiede il problema, chi lo crea e quali rapporti schiavisti ci stanno preparano, tra una frustata e l'altra.

MALCOM X.

Fin da quando ero ragazzo ho imparato che le cose che vi portano alla maturità non sono altro che guai, disgrazie, tribolazioni. Se si superano le difficoltà della pioggia, delle neve o del nevischio, voi ben sapete che, queando splende il sole e ogni cosa fila liscia, tutto diventa piu’ facile.

Dovrei anzi dire conoscenza, di modo che da parte nostra, si possa capire il presente ed essere meglio preparati ad affrontare il futuro.

Il passato quindi contiene in se’ la storia e l’origine di qualcosa : di una persona, di una nazione, si ha una comprensione migliore delle cause di qualsiasi cosa originata, delle ragioni del suo esistere. Non è possibile in questa societa’, ne’ per me ne’ per voi, avere una mente equilibrata senza studiare con cura il passato, poiche’ in questa particolare societa’, in conseguenza del nostro adattamento a essa e del nostro modo di agire, siamo dei paria, tali da essere calpestati, da essere considerati nullita’. Ora, se non studiamo con cura il passato e non scopriamo l’origine della nostra condizione, siamo indotti a pensare che siamo stati sempre cosi’. E se si pensa di essere sempre stati cosi’, ci si sente privi di valore, quasi ridotti a niente.

Le persone di mente ristretta, in conseguenza della limitatezza della loro conoscenza, pensano di essere toccati solo da cio’ che accade nell’isolato in cui vivono.

Il potere ci osserva costantemente. Proprio come uno scienziato nel laboratorio, ha l’intera comunita’ negra degli Stati Uniti sotto il microscopio, per scoprire come la pensiamo, per aggiornarsi sul nostro modo di considerare le cose, per rendersi conto della velocita’ del battito del nostro polso : pulsa troppo veloce ? la temperatura sale o scende ? gli è indispensabile sapere come la pensiamo, cosa sentiamo. Se la temperatura sale quando vuole lui, tutto va bene, ma se scopre che essa sale a un grado cui non puo’ controllare, ne è tormentato.

Se il potere è concentrato in un luogo determinato, bene, non rimane altro da fare che andarvi e impossessarsene di una parte : il che non è altro che sottrarlo a chi gia’ lo detiene; è una constatazione molto semplice.

Riflettere : vi si mette la corda attorno al collo e poiche’ voi urlate, il misero bianco del Sud che cerca di impiccarvi vi accusa di essere emotivi. Evidentemente suppongono che vi facciate mettere la corda al collo urlando con gentilezza e suppongono anche che siate pieni di rispetto e responsabili delle vostre azioni quando urlate per il male che vi stanno facendo.

AVETE mai osservato un autentico americano di pelle nera ? fatelo, osservatelo, osservate l’autentico negro americano borghese : non desidera mostrare alcun segno d’emozione, non è nemmeno disposto a segnare il ritmo di una musica con il battito del piede. Gli potete far sentire qualsiasi musica che veramente tocchi l’anima, egli siedera’ immobile, lo vedo come se mi fosse davanti ed ecco perche’ vi dico questo. E la ragione della simulata indifferenza è che egli sa che la stessa musica lascerebbe indifferenti i bianchi. I bianchi rimangono indifferenti poiche’ sono incapaci di sentirla, sono privi d’anima, ed egli finge di non avere un’anima per cercare di somigliare a loro. Il che, detto francamente è una vergogna.

L’IMBROGLIO piu’ grosso viene messo in atto quando ci chiamano “ NEGRO “, la truffa aumenta di dimensione quando noi stessi ci autodefiniamo “ NEGROES “, poiche’ finiamo con l’imbrogliarci da soli. NON SIAMO NEGROES non lo siamo mai stati finche’ non ci hanno portato qui e resi tali : noi siamo stati scientificamente mutati in NEGROES dall’uomo bianco. Ogni qualvolta si ascolta qualcuno autodefinirsi – NEGRO – si nota che è un prodotto genuino della civilta’ occidentale e non dovrei usare la parola – CIVILTA’ – ma piuttosto la parola – CRIMINE - . il NEGRO nell’eccezione comune dei bianchi e di coloro che spontaneamente si autodefiniscono tali, è la testimonianza migliore che possa essere chiamata in causa per accusare la civilta’ occidentale d’oggi. Una delle ragioni principali per cui li chiamano NEGROES è che in tal modo ci impediscono di sapere effettivamente chi siamo, e la stessa cosa fate voi quando vi autodefinite con questa parola. FINCHE’ usate la parola NEGRO non sapete cosa siete, non sapete da dove venite, non sapete cos’e’ vostro, nemmeno la lingua : non potete vantare diritti su nessun linguaggio, nemmeno sull’inglese, infatti quando parlate lo storpiate. Non potete vantare diritti su nessun tipo di nome, nemmeno su un nome qualsiasi che possa servire ad identificarvi con cio’ che potreste essere. Finche’ usate la parola NEGRO per darvi un’identita’ non potete vantare diritti su nessuna forma di cultura : essa non vi collega con nulla non da una identificazione nemmeno al colore della vostra pelle, mentre se dobbiamo riferirci a qualcuno di loro, sappiamo bene che si chiamano bianchi.i bianchi per distinguerli, alcuni di loro li chiamano portoricani; fate attenzione quando chiamano qualcuno portoricano gli danno una denominazione migliore di quella che danno a noi, poiche’ come sapete, esiste un luogo da cui deriva questo nome e almeno vi fanno sapere il luogo di provenienza. Ecco le loro classificazioni : bianco, portoricano, negro. Riflettete un momento: ecco fratelli un altro ostacolo posto davanti a noi. Bianco infatti è un nome legittimo, identifica infatti il colore della loro pelle; portoricano vi fa sapere che si tratta di una persona che, pur vivendo ora in questo paese proviene da un luogo ben preciso. NEGRO non dice niente, non comunica niente, non significa assolutamente niente.ditemi cosa potete identificare con esso ? niente. Cosa, cosa si puo’ collegare ad esso ? niente. Si trova esattamente al centro della terra di nessuno, e quando voi adoperate questo nome per designarvi, ecco dove siete: nella terra di nessuno. Non vi d’a linguaggio, poiche’ non esiste una lingua negra; non vi da cultura poiche’ non esiste una cosa simile. Non esiste insomma, la terra, non esiste la lingua, non esiste la cultura, non esiste l’uomo ; chiamandovi negri non vi fanno esistere. Potete infatti passeggiare davanti ai bianchi per tutto un giorno ed essi continueranno ad agire come se nemmeno vi vedessero, poiche’ voi stessi contribuite a privarvi d’una esistenza, siete persone prive di cultura, prive di storia.

Essi sono molto astuti: la mia, faccio notare di nuovo, non è un’affermazione razzista: alcuni possono non essere pieni d’inganni, ma tutti coloro con cui ho avuto a che fare si sono comportati da furbi e la loro civilta’ rispecchia questa loro malizia.l’astuto bianco, scrivendo libri,illustrandoli,realizzando spettacoli teatrali e televisivi, è stato cosi’ abile da impossessarsi della civilta’ egiziana e riuscire a convincere gli altri popoli che gli antichi egizi erano bianchi; erano invece africani quanto me e voi.

Le piramidi come ammettono gli stessi scenziati bianchi, sono costruite in una posizione tale da mostrare che gli antichi architetti che le idearono, avevano una conoscenza cosi’ vasta della geografia da saper calcolare il centro esatto della gravita’ della massa terrestre. E infatti le basi delle piramidi sono situate in esatta corrispondenza del centro di gravita’ della massa terrestre, cosa che non poteva avvenire, almeno che gli architetti non conoscessero, gia’ in quei tempi lontani, che la terra è rotonda e non sapessero calcolare la superfice della quantita’ di terra che si estendeva da ogni parte, partendo dal punto in cui essi si trovavano. Le piramidi sono state costruite tante migliaia di anni fa che è quasi impossibile calcolare l’epoca esatta in cui furono edificate, ma nonostante cio’, i bianchi riconoscono che il popolo che le realizzo’ conosceva a fondo la scienza delle costruzioni e oltre all’astronomia, le varie scienze connesse con lo studio della terra.

TRE FIGURE sono state coinvolte nel crimine commesso contro di noi: il mercante di schiavi, il padrone e un terzo di cui non ci hanno mai detto niente; il CREATORE DI SCHIAVI. Si legge del mercante di schiavi, del padrone, in effetti quest’ultimo voi lo conoscete bene: siente ancora nelle sue mani, ma non si puo’ leggere con altrettanta facilita’ del ruolo recitato dal CREATORE di schiavi.non si puo’ fare d’un saggio uno schiavo, non lo si puo’ fare d’un guerriero. Quando noi venimmo qui, anzi fummo portati con la forza, provenivamo da una societa’ altamente civilizzata, la nostra cultura era di prim’ordine, inoltre eravamo dei guerrieri, non conoscevamo la paura. Come hanno potuto mutarci in schiavi ? dovettero farci subire la stessa cosa che si fa ad un cavallo non gli si salta subito in groppa per cavalcarlo, non gli si metta subito in bocca un morso per farlo arare, no, dovete prima domarlo spezzandogli la volonta’ e solo quando lo si è domato si puo’ cavalcarlo. E l’uomo che lo cavalca non è mai l’uomo che lo ha domato; c’e’ bisogno di un individuo adatto per domarlo. Ci vuole un uomo crudele spietato, privo di sentimeti spregevole. Ecco il motivo per cui è sparita dalla storia la figura del il CREATORE DI SCHIAVI. Era cosi’ delittuosa, che non hanno avuto il coraggio di scriverci suedi raccontare cosa ci è stato fatto per abbassarci al livello in cui ci troviamo. Poiche’ se venite a conoscenza del ruolo recitato dal CREATORE DI SCHIAVI, ve lo dico con chiarezza,troverete difficile dimenticare e perdenare;lo trovereste senz’altro difficile. Io personalmente non posso perdonare il padrone di schiavi figuriamoci IL CREATORE.

IL CREATORE DI SCHIAVI – sapeva che non poteva fare di questa gente degli schiavi, a meno che per prima cosa, non li avesse resi muti. E’ uno dei sistemi migliori per privare qualcuno della capacita’ di esprimersi è privarlo del suo linguaggio. Come si chiama un uomo che non è capace di esprimersi, di farsi sentire, se non fantoccio, uomo di paglia ? una volta privi del vostro linguaggio siete dei fantocci: non potete comunicare con i vostri simili, non potete scambiare informazioni con la vostra famiglia, proprio non potete comunicare.

BK.


Fonte: Namir

Vendola e McCain sulla Cina

«La storia comincia a correre. Cambia l'epoca e si rompe il vecchio mappamondo e il Mediterraneo torna al centro della scena del mondo. I giovani libici chiedono la cacciata del rais Gheddafi che è stato un despota per molti anni a disposizione dell'Occidente per il lavoro sporco». Lo dice il leader di Sel Nichi Vendola a Radio Anch'io commentando la rivolta nel Maghreb. «Questo- aggiunge Vendola- rende davvero visibile la meschinità delle classi dirigenti dell'Europa che di fronte a un popolo che scende in marcia e guadagna la propria libertà, si mostra turbata invece di brindare. Ma questo- osserva Vendola- è un cammino che dovrà riguardare anche l'Iran e la Cina. E dico alla gente mia, a chi ha amato come me Ernesto Guevara detto il Che, che questa evoluzione verso la democrazia e la libertà riguarda anche Cuba: non c'è più alibi e giustificazione al mondo».

Fonte: Unità

(ANSA) - TRIPOLI, 29 SET - Per il senatore repubblicano Usa John McCain, la rivoluzione libica e' un' ispirazione per i popoli di Siria, Iran, Cina e Russia: l'ex avversario presidenziale di Barack Obama lo ha dichiarato in conferenza stampa durante una visita a Tripoli, aggiungendo che la continuazione della guerra civile e' un ostacolo per gli investimenti, che le imprese americane, dice, sono impazienti di fare in Libia.

Fonte: Tiscali Notizie

No Tav: distrutto il loro scenario apocalittico

Ancora una volta gli scenari apocalittici della vigilia si sono frantumati davanti alle ragioni del movimento No Tav.

In molti, nei giorni scorsi, hanno sperato che la manifestazione di oggi in valle di Susa si trasformasse in una semplice prova di forza dai risvolti drammatici. Invece ancora una volta i valsusini hanno dimostrato un grandissimo senso di responsabilità, sfidando a migliaia sentieri e freddo per ribadire la propria indignazione, e contrarietà, in merito ad un’opera utile a pochi e dannosa ai più.

I pronostici della vigilia legati agli scenari apocalittici di chi invocava la militarizzazione dell’intera valle, cadono miseramente in frantumi innanzi alla determinazione, lucida e piena di disinteressata passione, di chi da anni lotta per evitare uno scempio ambientale ed economico senza eguali.

Rimangono ad occupare il cantiere gli sprechi derivanti dall’insediamento dei sondaggi geologici, modello “Cinecittà”, aperti a Chiomonte a cui si sommano i costi, in molte migliaia di Euro, per la vigilanza dell’area affidata al personale, sempre più stremato, dei polizia ed esercito.

L’Europa, che in passato qualcuno indicava come la grande finanziatrice del Tav, si appresta a coprire forse solo il 40% del costo legato all’opera, chiudendo gli occhi davanti al grande dissenso manifestato da un popolo intero. Lo scenario apocalittico può essere riconducibile solo alla colpa grave di chi difende il progetto Tav a tutti i costi. Credo, ma è solo un’opinione personale, sia giunto il momento di tornare a manifestare davanti alle sedi del potere di Torino.

Juri BOSSUTO
PRC Federazione della Sinistra

No Tav: «Faremo disobbedienza civile»

Chi voleva che il count-down in vista di domenica fosse un'escalation di tensioni ha avuto il ben servito. Non saranno certo i No Tav ad alimentarla. Gli interventi articolati, le mani alzate per un voto unanime e il coro liberatorio finale con il motto «Sarà düra» sono il ritratto di un'assemblea intensa, che giovedì sera a Villar Dora si è espressa favorevolmente rispetto alla proposta del coordinamento dei comitati. Sarà una giornata di disobbedienza civile a volto scoperto e a mani nude (senza oggetti contundenti, solo tronchesine per tagliare «le reti illegittime del non cantiere»). Avrà regole precise e condivise: «Nessuno dovrà accettare lo scontro. Nessuno di noi - ha spiegato Alberto Perino - può permettere che accada il minimo incidente. Ci stiamo giocando una grossa fetta del patrimonio di oltre vent'anni di battaglie».

La zona vicino al sito della Maddalena, strade e sentieri, è off-limits già da questa mattina, secondo l'ordinanza del prefetto di Torino Alberto Di Pace. Ma la Valle - sfibrata dall'isteria politico-mediatica e dagli allarmi del ministro Maroni, che alla vigilia del 30 luglio disse che sarebbe scappato il morto quando poi non successe nulla - è pronta a «Diamoci un taglio». L'appuntamento è alle 10.30 di domenica a Giaglione. Questo il programma e le cosiddette «regole d'ingaggio»: «Dopo il concentramento - ha sottolineato Perino - andremo alla baita Clarea, verso le reti, attorno alle quali ci posizioneremo con estrema calma senza dare pretesti a essere male interpretati. Un segnale darà il via al taglio, un altro un segnale ci avviserà del rientro alla baita e poi a Giaglione. Tutto questo avverrà a volto scoperto. Se le forze dell'ordine lanceranno lacrimogeni e la Val Susa si riempirà di fumo alzeremo i tacchi e ce ne andremo in buon ordine. Chi vorrà portarsi la maschera antigas, nel caso ci fosse un lancio di Cs, potrà mettersela solo sulla via del rientro. Chi non accetta queste condizioni si pone automaticamente al di fuori del movimento e della manifestazione».
I No Tav sanno che sarà una giornata delicata (sanno, per esempio, che tagliando le reti incorrono in un reato; la Procura di Torino ha annunciato che chiunque cercherà di tagliare la recinzione del cantiere Ltf sarà arrestato). Ma hanno anche l'esperienza e la maturità per gestire la situazione. «Dovrà essere un nuovo inizio» ha detto in assemblea Maurizio Piccione di Spinta dal Bass. «L'immagine - ha aggiunto Ezio Bertok, No Tav Torino - che uscirà dalla manifestazione sarà quella che daremo all'esterno. Non siamo un piccolo cortile e abbiamo una responsabilità in più, perché siamo un punto di riferimento per tante realtà nel Paese».
Una zona cuscinetto di quasi un chilometro di diametro terrà i manifestanti No Tav lontano dall'area del cantiere, difesa da un migliaio di agenti. Il movimento cercherà di aggirare i blocchi: «Se ci sarà uno spiegamento tale da impedircelo - dice Perino - noi non cercheremo lo scontro. Avranno comunque perso loro, per lo sperpero di denaro pubblico causato». Lo ha spiegato Luigi Casel, liste civiche: «Il progetto di difesa militare previsto per domenica costerà mezzo milione di euro, esattamente i soldi che mancano al Consorzio socio assistenziale della Valsusa». Resta da capire quale sarà la reazione delle forze dell'ordine: dura o soft.

La Cub porterà cesoie di gommapiuma. Ci saranno anche le famiglie, ma i bambini resteranno al parco giochi di Giaglione: «Lì dipingeranno la loro protesta sui cartelloni». La maggior parte dei sindaci No Tav non parteciperà, ma riunirà l'unità di crisi a Bussoleno. Ci saranno gli amministratori delle liste civiche («Senza tagliare le reti» ha precisato Giorgio Vair, vicesindaco di San Didero). Ieri, il sottosegretario degli Interni Michelino Davico, ha invitato «a modificare la composizione dell'Osservatorio della Torino-Lione per permettere agli amministratori No Tav di indicare un loro rappresentante». Si vedrà. Per ora, la Val di Susa attende domenica, citando il poeta Walt Whitman: «Resistere molto, obbedire poco».

venerdì 21 ottobre 2011

Premio Nobel per la Pace alla bomba atomica?

La morte violenta di Mu’ammar Gheddafi ha subito richiamato alla mente quella di Saddam Hussein, solo di pochi anni precedente. Malgrado certe differenze palesi (Hussein non fu assassinato da una manica di balordi armati di telefonini, ma giustiziato dopo un più o meno regolare processo), le analogie sono evidenti, tanto che il parallelo è stato subito fatto proprio dalla stampa. Un paio di similitudini si sono però perse nel discorso “mainstream”.

Entrambi i “Rais” sono passati, se non proprio per una “luna di miele”, quanto meno per una fase di serena e pacifica convivenza col Patto Atlantico. Saddam Hussein negli anni ’80 conduceva una lunga e sanguinosissima guerra contro l’Iràn rivoluzionario, forte dell’appoggio esplicito della NATO. Certo non sapeva che, mentre i paesi della NATO lo rifornivano delle armi necessarie a combattere gl’Iraniani, gli USA – tramite insospettabili triangolazioni con Israele e il Nicaragua – garantivano un trattamento non dissimile, anche se celato nell’ombra, a Tehran. Ma in quel frangente Hussein accoglieva sorridente e fiducioso gli stravaganti doni (inclusi degli speroni d’oro) che gli portava dagli USA l’inviato speciale di Reagan in Medio Oriente. Costui si chiamava Donald Rumsfeld; vent’anni più tardi avrebbe guidato, come segretario alla Difesa, l’invasione dell’Iràq e la deposizione del presidente Hussein.

Gheddafi, dal canto suo, dopo una lunga carriera da rivoluzionario anti-imperialista, ha intrapreso la strada della normalizzazione dei rapporti con gli USA e l’Europa negli anni ’90, quando il crollo dell’URSS e l’inizio della fase unipolare d’egemonia statunitense lasciavano pochi spazi di manovra (persino ai condottieri fantasiosi e imprevedibili come lui). Mandava il suo figlio e delfino Saif al-Islam a studiare a Vienna e poi alla London School of Economics, esperienze da cui rientrava come fautore delle riforme neoliberali nella socialista Jamahiriya libica. Mu’ammar Gheddafi accettava la responsabilità dell’attentato di Lockerbie e l’esborso dei conseguenti indennizzi. Ma soprattutto, stringeva rapporti politico-economici sempre più vincolanti con paesi della NATO, come la Francia, l’Italia e la Gran Bretagna. Ma non solo. Malgrado mantenesse la sua verve polemica verso gli USA, denunciandone il comportamento in Iràq ed impegnandosi, tramite il progetto dell’Unione Africana, a respingerne il neocolonialismo nel continente nero, faceva proprio degli Stati Uniti d’America il principale beneficiario degl’investimenti esteri di capitali libici.

In nome della normalizzazione dei rapporti con la NATO, sia Hussein sia Gheddafi accettarono di smobilitare una parte del proprio apparato bellico, in particolare quello più temibile – ossia le armi chimiche e batteriologiche. Saddam Hussein si disarmò, sotto l’attento controllo degl’ispettori dell’ONU, dopo la dura sconfitta patita ad opera degli USA nel 1991. Ma quando Washington fu sicura che l’Iràq non possedesse più armi per difendersi, l’aggredì – agitando, con involontaria ironia, proprio lo spettro delle “armi di distruzione di massa” che in realtà il paese vicinorientale aveva distrutto su loro richiesta – e depose Hussein, poi catturato e giustiziato dal nuovo regime locale. Nel 2003 anche Gheddafi, timoroso di diventare prossimo obiettivo della crociata neoconservatrice per la “democratizzazione” del “Grande Medio Oriente”, annunciò l’annullamento del suo programma nucleare e la distruzione di tutte le armi chimiche e batteriologiche, nonché dei missili balistici a lungo raggio. È cronaca recente ancor più che storia la sorte toccata a Gheddafi, per mano della NATO stessa, solo pochi anni dopo le sue concessioni.



Abbiamo dunque veduto come il tentativo di distendere i rapporti con la NATO non abbia portato fortuna a Iràq e Libia. Gli USA, capialleanza della NATO, perseguono una strategia egemonica che non contempla rapporti normali ed alla pari con paesi del “Terzo Mondo”. O meglio, considera rapporti “normali” con questi paesi la loro pura e semplice sudditanza.

Inoltre, le aggressioni atlantiste ai due paesi arabi, conseguenti a parziali smilitarizzazioni da parte dei loro dirigenti, ci mettono di fronte ad un’altra realtà. Malgrado tutte le teorie idealistiche e post-moderne delle relazioni internazionali forgiate e proposte nel periodo post-Guerra Fredda, il fattore militare ricopre ancora un ruolo di primo piano. È senz’altro vero che oggi vi sono strumenti di guerra diversi da quello militare, come argomentato da Liang e Xiangsui, ma ciò non lo cancella. La politica internazionale è ancora un agone di competizione non pacifica. Dato che in questi giorni i commentatori italiani sembrano in preda ad un attacco di “latinismo acuto”, adeguiamoci alla moda del momento ed affermiamo che la politica mondiale è una bellum omnium contra omnes (guerra di tutti contro tutti) in cui homo homini lupus (l’uomo è il lupo dell’uomo).

Cerchiamo la controprova per corrobare quanto appena asserito, e la troviamo in Corea del Nord. La Repubblica Democratica Popolare non ha cercato di normalizzare i rapporti con gli USA, nemmeno durante il periodo unipolare. Ha coscientemente optato per l’isolamento, con tutte le conseguenze negative del caso sul piano commerciale, economico e non solo. Ma nel contempo, lungi dallo smilitarizzare sperando così d’evitare un’aggressione esterna, si è invece armata fino ai denti. Si vis pacem para bellum (se vuoi la pace prepara la guerra), dicevano i nostri antenati. Ancora latino. Gli antichi nella loro austera saggezza avevano già capito e descritto tutto.

Ma torniamo al presente, torniamo a Pyongyang. I Nordcoreani, nel loro assillo di tutelarsi con le armi dalle minacce esterne, non si sono fermati di fronte a nulla e sono arrivati fino al deterrente supremo offerto dalla nostra epoca: la bomba nucleare. Di fronte al pericolo di vedersi polverizzare le proprie nutrite guarnigioni in Corea del Sud e in Giappone con pochi e ben assestati colpi nucleari, gli USA si sono guardati bene dal mettere in atto con Pyongyang le maniere forti usate contro Baghdad e Tripoli. Si può ben dire che nella penisola coreana le armi hanno mantenuto la pace; quella stessa pace che il disarmo ha minato nel Vicino Oriente e in Nordafrica, portandovi guerre luttuose i cui morti si contano in centinaia di migliaia (forse milioni) in Iràq, in decine di migliaia (ma la cifra aumenterà) in Libia.

Alla luce di quanto detto finora, non sarebbe logico e giustificato attribuire il prossimo Premio Nobel per la Pace non a Internet, come vorrebbero taluni, ma alla bomba atomica? Un premio per la pace all’arma più letale di tutte può essere percepita come una provocazione illogica, ma dopo il conferimento del medesimo riconoscimento a Barack Obama ogni candidatura diventa più difendibile. Nel peggiore dei casi si potrà argomentare che fallacia alia aliam trudit (un inganno tira l’altro). I latini avevano davvero previsto tutto.


* Daniele Scalea è segretario scientifico dell’Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie (IsAG) e redattore di “Eurasia”. È autore de La sfida totale (Fuoco 2010) e co-autore (con Pietro Longo) di Capire le rivolte arabe (IsAG-Avatar 2011).

Fonte: Eurasia Rivista

Testamento politico di Muammar Gheddafi, Guida della Rivoluzione della Grande Jamahiriya Araba Libica Popolare Socialista

In nome di Allah, il Clemente, il Misericordioso;
Per 40 anni, o magari di più, non ricordo, ho fatto tutto il possibile per dare alla gente case, ospedali, scuole e quando aveva fame, gli ho dato da mangiare convertendo anche il deserto di Bengasi in terra coltivata.
Ho resistito agli attacchi di quel cowboy di nome Reagan anche quando uccise mia figlia, orfana adottata, mentre in realtà, tolse la vita a quella povera ragazza innocente cercando di uccidere me.
Successivamente aiutai i miei fratelli e le mie sorelle d’Africa soccorrendo economicamente l'Unione africana, ho fatto tutto quello che potevo per aiutare la gente a capire il concetto di vera democrazia in cui i comitati popolari guidavano il nostro paese; ma non era mai abbastanza, qualcuno me lo disse, tra loro persino alcuni che possedevano case con dieci camere, nuovi vestiti e mobili, non erano mai soddisfatti, così egoisti che volevano di più, dicendo agli statunitensi e ad altri visitatori, che avevano bisogno di "democrazia" e "libertà", senza rendersi conto che era un sistema crudele, dove il cane più grande mangia gli altri.

Ma quelle parole piacevano e non si resero mai conto che negli Stati Uniti non c’erano medicine gratuite, né ospedali gratuiti, nessun alloggio gratuito, senza l’istruzione gratuita o pasti gratuiti, tranne quando le persone devono chiedere l'elemosina formando lunghe file per ottenere un zuppa; no, non era importante quello che facevo, per alcuni non era mai abbastanza.

Altri invece, sapevano che ero il figlio di Gamal Abdel Nasser, l'unico vero leader arabo e musulmano che abbiamo avuto dai tempi di Saladino, che rivendicò il Canale di Suez per il suo popolo come io rivendicai la Libia per il mio; sono stati i suoi passi quelli che ho provato a seguire per mantenere il mio popolo libero dalla dominazione coloniale, dai ladri che volevano derubarci.

Adesso la maggiore forza nella storia militare mi attacca; il mio figliuolo africano, Obama, vuole uccidermi, togliere la libertà al nostro paese, prendere le nostre case gratuite, la nostra medicina gratuita, la nostra istruzione gratuita, il nostro cibo gratuito e sostituirli con il saccheggio in stile statunitense, chiamato "capitalismo", ma tutti noi del Terzo Mondo sappiamo cosa significa: significa che le corporazioni governano i paesi, governano il mondo e la gente soffre, quindi non mi rimangono alternative, devo resistere.

E se Allah vuole, morirò seguendo la sua via, la via che ha arricchito il nostro paese con terra coltivabile, cibo e salute e ci ha permesso di aiutare anche i nostri fratelli e sorelle africani ed arabi a lavorare con noi nella Jamahiriya libica.
Non voglio morire, ma se succede, per salvare questo paese, il mio popolo e tutte le migliaia che sono i miei figli, così sia.

Che questo testamento sia la mia voce di fronte al mondo: che ho combattuto contro gli attacchi dei crociati della NATO, che ho combattuto contro la crudeltà, contro il tradimento, che ho combattuto l'Occidente e le sue ambizioni coloniali e che sono rimasto con i miei fratelli africani, i miei veri fratelli arabi e musulmani, come un faro di luce, quando gli altri stavano costruendo castelli.

Ho vissuto in una casa modesta ed in una tenda. Non ho mai dimenticato la mia gioventù a Sirte, non spesi follemente il nostro tesoro nazionale e, come Saladino, il nostro grande leader musulmano che riscattò Gerusalemme all'Islam, presi poco per me ....

In Occidente, alcuni mi hanno chiamato "pazzo", "demente": conoscono la verità, ma continuano a mentire; sanno che il nostro paese è indipendente e libero, che non è in mani coloniali, che la mia visione, il mio percorso è, ed è stato, chiaro per il mio popolo : lotterò fino al mio ultimo respiro per mantenerci liberi, che Allah Onnipotente ci aiuti a rimanere fedeli e liberi.

Colonnello Muammar Gheddafi, 5 aprile 2011

Il martire Gheddafi è vivo.

La guerra non soffre la crisi.
"La guerra è pace" (G. Orwell)

Il comune denominatore di ogni secolo è sempre lo stesso: la chiamano guerra. Io chiamo pace quell'arco di tempo che trascorre tra una guerra e un'altra, per te cos’è la pace? Tutte le guerre vengono giustificate con la solita manfrina: combattiamo per la pace e la democrazia.
La traduzione sarebbe: combattiamo per eliminare i nemici ed imporre le nostre regole economiche e sociali. La guerra fa crescere il PIL e può distorcere momentaneamente le crisi sociali causate dal capitalismo.  E' utile per imporre il proprio stile economico e per eliminare ogni spinta di autodeterminazione dei popoli. Gli Stati Uniti e il complice occidente stanno distruggendo il pianeta saccheggiando tutte le risorse. Attaccano tutti gli stati che hanno sovranità nazionale perchè non sono loro schiavi. Lo sanno molto bene in Sud America (Cuba, Venezuela, Cile, Honduras, ecc).
Memorabile furono le resistenze del Vietnam o di Cuba che ci hanno insegnato che resistere ai Padroni del mondo è possibile. Nelle settimane scorse il senatore americano McCain ha affermato che ora toccherà a Siria, Iran, Cina, Russia. Dunque la preoccupazione è per lo più per gli stati non
citati: ad esempio il Venezuela. Vi immaginate un mondo libero, senza guerre e padroni a stelle e strisce? Ecco, potete solo immaginarlo perchè l'occidente  ha tutto l'interesse a comandare il globo, proprio come la BCE comanda l'Europa. Dopotutto la stessa Unione Europea e l'Euro furono una linea dettata dagli  Stati Uniti più di 60 anni fa. Ma cos'è la guerra?
Sin da piccoli ci insegnano che la guerra è la cosa più brutta della nostra società e probabilmente è la principale  caratteristica della razza umana. Non so se vi è mai capito di spiegare la guerra a dei bambini, quegli esseri innocenti che dovrebbero essere il nostro futuro. Ai bambini viene insegnato che ci sono i brutti e i cattivi che fanno la guerra e poi ci sono i buoni che si difendono e vincono, anche se spesso l'innocenza dei loro pensieri giunge alla conclusione che in guerra tutti sono i cattivi, perchè tutti uccidono. Ma noi non siamo bambimi e la realtà uccide la nostra umanità.


La manipolazione ai fini bellici.
“La stampa è tanto potente nella creazione di immagini da poter far sembrare una vittima il criminale e mostrare la vittima come fosse il criminale. Questa è la stampa, una stampa irresponsabile. Se non stai attento, i giornali ti faranno odiare la gente che è oppressa e amare coloro che opprimono” (Malcolm X)

La guerra della Nato in Libia è stata presentata all’opinione pubblica internazionale come un intervento umanitario “a tutela  del popolo libico massacrato da Gheddafi”. In realtà la Nato e il Qatar (patria di Al Jazeera) sono schierati, per ragioni geostrategiche, a sostegno di una delle due parti armate  nel conflitto, i ribelli di Bengasi (dall’altra parte sta il Governo).
Un punto fermo dell'occidente è l'ignoranza del gregge di pecore che si chiama popolo. Le menti critiche in questa società sono singoli spiragli di luce in un grigio inverno. La pecora non pensa e dà credito a quello che i mass media gli dicono, i quali raccontano la verità dei poteri forti. Tanti lo fanno perchè si rifiutano di accettare la verità, tanti altri perchè pensano che è meglio vivere 100 giorni da pecora che una breve vita da leone. Penso sia questa la morale dello stile di vita occidentale. Prima di iniziare una guerra imperialista arriva dunque sempre puntuale la manipolazione e la disinformazione. I Mass media possono dire tutto, anche perchè  sono ben consapevoli che la notizia "feroce" pubblicata vale 100mila volte di più della possibile smentita giunta molti giorni dopo. I Mass Media ci informarono di una strage di civili libici da parte di Gheddafi, una carneficina. Tutto il mondo diede per vere queste notizie che col tempo  furono del tutto smentite, persino dalla stampa borghese. Il primo Marzo Ruotolo (LaStampa) disse: "E’ vero, probabilmente non c’è stato nessun bombardamento". Gli stessi ribelli smentiranno dicendo "Volevano spaventare. Tanto rumore e nessun danno". Ma la manipolazione è già iniziata
I bombardamenti dell’aviazione libica su tre  quartieri di Tripoli? Nessun testimone. Nessun segno di distruzione: i satelliti militari russi che hanno monitorato la situazione fin dall’inizio non hanno rilevato nulla. La “fossa comune” in riva al mare? E’ il cimitero (con fosse individuali!) di Sidi  Hamed, dove lo scorso agosto si è svolta una normale opera di spostamento  dei resti.
Le stragi ordinate da Gheddafi nell’Est della Libia subito in febbraio? Niente: ma possibile che sul posto nessuno avesse un telefonino per fotografare e filmare? I Media hanno cercato di farci credere che la comunità internazionale fosse unita contro le presunte barbarie della Libia.
Cina, Russia, Brasile, India e Germania non votarono per l'attacco, dando un segnale forte. Nessuna unità imperialista per il petrolio libico.


La Grande Jamāhīriyya Araba Libica Popolare Socialista.
"Il lavoro in cambio di un salario è praticamente la stessa cosa del ridurre in schiavitù un essere umano." (Gheddafi)

La Libia è la più grande economia petrolifera in Africa, sopra la Nigeria e l'Algeria. Detiene almeno 46,5 miliardi di barili di riserve accertate di petrolio (10 volte quelle dell'Egitto). Ossia il 3,5% del totale mondiale. La Libia produce tra 1,4 e 1,7 milioni di barili di petrolio al giorno. Il suo petrolio è molto pregiato, soprattutto con un costo ultra-basso di produzione di 1 dollaro al barile. Il petrolio è la principale ricchezza nelle mani delle multinazionali, questa fonte energetica permette di disporre di un sempre maggior potere politico nel mondo. Mi preme ricordare che la Libia è stato il primo paese africano a conquistare la sua indipendenza dopo la Seconda Guerra Mondiale. La Libia, che aveva un milione di abitanti quando conquistò la sua indipendenza, oggi conta su circa sei milioni. La fine del regime di re Idris e del sistema coloniale e la sua sostituzione con un modello progressivo di partecipazione delle masse è un dato storico difficilmente contestabile. La Libia conquistò l’indipendenza nazionale e fece dell’antimperialismo la sua bandiera. Nazionalizzò le fonti primarie di energia (petrolio) e scoprì e canalizzò la ben più preziosa acqua fossile del deserto. Portò la Libia al più alto welfare africano.
Le condizioni di vita restano, in Libia, decisamente migliori di quelle negli altri paesi d'area, nonostante contrazioni in tale ambito dal 2003, con l'avvio delle liberalizzazioni (e ripresa delle relazioni con USA e Unione Europea) e con l'esaurimento del processo di socializzazione delle risorse. In Libia l’invasione della NATO e l’occupazione hanno segnato la “rinascita” degli standard di vita rovinosi. Questa è la verità vietata e non detta: un’intera nazione è stata destabilizzata e distrutta, il suo popolo costretto alla povertà abissale. Mentre si insediava un governo ribelle “a favore della democrazia”, il paese è stato distrutto. Contro il fondale di una guerra di propaganda, i successi economici e sociali della Libia degli ultimi trent’anni hanno brutalmente mutato di direzione: la Jamahiriya Araba Libica aveva un alto livello di vita e un robusto apporto calorico pro capite, pari a 3144 chilocalorie. Il paese ha fatto passi in avanti in campo sanitario e dal 1980, i tassi di mortalità infantile sono calati da 70 a 19 nascite su 100.000 nel 2009. L’aspettativa di vita è passata da 61 a 74 anni nello stesso lasso di tempo (FAO, Roma, Libya, Country Profile). La Libia garantiva l'acqua domestica gratuita per tutti e un costo di vita molto basso. Una nazione senza debito pubblico che garantiva borse di studio agli studenti e la prima casa per le coppie appena sposate.


I Ribelli
"La fine del ventesimo secolo ha visto scomparire il colonialismo, mentre si ricomponeva un nuovo impero coloniale. Nel territorio degli Stati Uniti non c'è nessuna base militare straniera, mentre ci sono basi militari statunitensi in tutto il mondo" (J. Saramago)

Chi sono i ribelli? Tra Tripolitania e Cirenaica si sa non corre buon sangue tra le principali tribù che controllano in territorio ed è risaputo che le tribù della Cirenaica, Bengasi in testa, sono sempre state contro Gheddafi. La stessa definizione di guerra civile non è del tutto perfetta, perché si ha guerra civile quando la società si divide sulla base di un ideale o un motivo che risulta preminente, mentre qui l’elemento territoriale è preminente. L'occidente e la Nato hanno deciso di sostenere i ribelli prima segretamente con i militari sul suolo libico, poi pubblicamente con la No Fly zone della Nato. I Ribelli in realtà hanno diverse identità, un fronte "anti nazionale" contro Gheddafi principalmente comandato da uomini di ex governo dello stesso Gheddafi.
Durante il colonialismo italiano ci fu un’era di grandi costruzioni e sviluppo, mentre gli ultimi 40 anni con Gheddafi sono stati l’esatto opposto […….]  Penso che durante il colonialismo italiano ci fosse una legge giusta, c’era sviluppo agricolo. Invece con Gheddafi tutti i valori e i principi sono
stati  demoliti e rovesciati, le risorse libiche non sono mai state usate per i libici”. Dichiarazione di Jibril, presidente del CNT- Nato, rese a la Russa e al  Ministro della Difesa britannico Liam Fox.
Ma chi sono i capi dei ribelli:
Abdul Fattah Younis - ex ministro degli interni di Gheddafi - in primo piano per anni nella gestione della repressione gheddafiana (poi ucciso)
Mustafa Abdel Jalili - ex ministro di giustizia libico.
Mahmud Jibril, attualmente a capo del governo di transizione. Uomo chiave di Washington e Londra, era a capo dell’Ufficio Nazionale per lo Sviluppo Economico (zeppo di aziende di consulenza anglo-statunitensi) che propugnava la penetrazione economica di Usa e UK promuovendo liberalizzazioni e privatizzazioni, fino a quando Gheddafi non l’ha neutralizzato dal suo incarico.


Soluzione per la pace.
"È iniziata l'azione militare da parte degli alleati.. ancora guerra, ancora morte. Tutto con la mano degli Stati Uniti" (Chavez)

Chavez e i paesi dell’ALBA avevano richiesto una mediazione da esercitare sotto l’egida dell’ONU, senza intervento degli Stati imperialisti, se non osservatori, che mirava ad un cessate il fuoco, di fatto alla sostituzione di Gheddafi in modo pacifico, tramite un tavolo con tutte le forze libiche in
campo. Questi paesi non avevano interessi in campo: il Venezuela siede sul petrolio e l’America Latina è lontanissima dalla Libia e non poteva usufruire a costi convenienti del petrolio libico. L'ONU non prese neanche in considerazione questa ipotesi perché gli interessi europei e americani dovevano prevalere. Molti furono i dissensi dell'aggressione Onu contro la Libia. Germania, Svezia, Finlandia, Norvegia, Turchia, Federazione Russa, Cina e India espressero apertamente il loro dissenso e minacciarono, formalmente per via diplomatica, la loro uscita da tale organizzazione ritenuta ormai incontrollabile e priva di autonomia decisionale. A poco più di 24 ore dall'inizio dei bombardamenti sulla Libia, ci furono le prime crepe nell'alleanza anti-Gheddafi. Lega araba e Unione africana espressero critiche e distinguo rispetto agli attacchi di Francia, Usa e Gran Bretagna.


Guerra
"Solo i morti hanno visto la fine della guerra" Platone

Il Consiglio di sicurezza dell'Onu si era pronunciato a favore dell'istituzione della No fly zone sulla Libia e dell'autorizzazione all'uso di non meglio precisati mezzi necessari a prevenire violenze contro i civili. In altri termini, ha autorizzato la guerra.
Il pallido e fino ad oggi insignificante Ban Ki Moon, diventato presidente dell'Onu solo in virtù dei suoi buoni uffici con gli Usa e del suo basso profilo, si è esaltato fino a definire la risoluzione 1973 storica, in quanto sancisce il principio della protezione internazionale della popolazione civile.
Un principio che vale a corrente alternata. Non ci sembra di ricordare che si sia evocato quando i cacciabombardieri della Nato facevano stragi di civili in Afghanistan. Altrettanta solerzia non è risultata effettiva quando gli F16 dell'aviazione israeliana radevano al suolo il Libano o Gaza, uccidendo migliaia di civili innocenti.
Chi stabilisce, infatti, che si decide di bombardare la Libia, mentre si consente all'Arabia Saudita di inviare truppe per sedare le proteste nel vicino Baherein, mentre si lascia il presidente dittatore da trentadue anni dello Yemen, Abdullah Saleh, sparare da giorni sulla folla che ne chiede a gran voce e da tempo le dimissioni? Si arriva al paradosso che la petromonarchia del Qatar, anch'essa impegnata nel reprimere le proteste del Baherein con il suo esercito, ha allo stesso tempo annunciato che invierà i suoi caccia per la democrazia in Libia.
Tutto ciò dimostra solo come nel caso libico si è da subito tentato di intervenire militarmente per interessi geopolitici. Per gli USA intervenire in Libia è stata una bella mossa per instaurare un regime servile ed impiantarsi in una zona strategica, tra l'altro ricca di petrolio, al confine con l'Egitto, da destabilizzare se la transizione non andasse come auspicato. Avendo un ulteriore trampolino di lancio non solo in funzione di controllo delle economie subalterne cosiddette "europee", comunque da tenere sempre sotto controllo, ma anche per rafforzare la politica di contrasto a tutto campo della penetrazione cinese in Africa.
L’obiettivo dei bombardamenti della NATO sin dall’inizio era di distruggere i livelli di vita della nazione, la struttura sanitaria, le sue scuole e gli ospedali, il sistema di distribuzione dell’acqua. E poi “ricostruire” con l’aiuto di donatori e creditori al timone del FMI e della Banca Mondiale.
I diktat del “libero mercato” sono una precondizione per l’istituzione di una “dittatura democratica” di stile occidentali. Circa 90.000 missioni, di cui decine di migliaia su obiettivi civili, zone residenziali, edifici governativi, impianti per la fornitura di acqua ed elettricità (vedi Comunicato della NATO, 5 settembre 2011. 8140 missioni dal 31 marzo al 5 settembre 2011).
È stata bombardata un’intera nazione con gli armamenti più avanzati, anche con le munizioni rivestite di uranio. Già in agosto l’UNICEF aveva avvertito che i massicci bombardamenti della NATO delle infrastrutture idriche della Libia “avrebbero potuto provocare un’epidemia senza precedenti” (Christian Balslev-Olesen dell’Ufficio per la Libia all’UNICEF, Agosto 2011).
Teoricamente la no fly zone dovrebbe essere una forza internazionale che garantisce il blocco dei mezzi aerei per la  protezione dei civili. In realtà c’è stato un intervento diretto, con bombardamenti a tappeto su Tripoli che è ben altro da quello che l’ONU aveva preventivato e che ha provocato
ad esempio la condanna dell’Unione Africana e i distinguo della Lega Araba che si è detta contraria. Nei soli primi due giorni sul territorio libico erano già in azione aerei Usa, inglesi e francesi. Sono 19, tra caccia e bombardieri, compresi gli Stealth, gli aerei da guerra Usa. Primi due giorni dell'operazione: 110 missili, 40 bombe, 19 caccia americani, 8 aerei italiani, 6 Paesi coalizzati, 2 astensioni  all'Onu, centinaia tra morti e feriti civili, 1 campo della Croce Rossa colpito. Sono queste le prime cifre della sanguinosa operazione "Alba dell'Odissea”.
In questo scenario, le basi Nato italiane e, in primis, quelle siciliane di Birgi e di Sigonella hanno svolto un ruolo fondamentale nell’offensiva.  Gli interventi militari esterni fanno più vittime di quelle provocate dai veri o presunti “massacri” che si vorrebbero fermare. In Krajina, ad esempio, i bombardamenti “umanitari” della NATO permisero ai Croati  d’espellere un quarto di milione di serbi: una delle più riuscite operazioni di “pulizia etnica” mai praticate in Europa, almeno negli ultimi decenni.

Morti e feriti dopo l 'intervento degli alleati a scopi umanitari.
Iraq morti 1.288.246 feriti 1.354.229
Afganistan stime morti 92.000 fertile 57.000
Libia chissà se sapranno superarsi ...
Ma è la Nato a combattere o sono i ribelli?
La NATO bombarda i luoghi in cui i “ribelli” arrivano, trasportati dagli elicotteri Apache sparando a chiunque si trovi per strada. E solo dopo che hanno fatto tutto ciò, i cosiddetti “ribelli” entrano nelle strade. Nessuna azione militare è intrapresa dai cosiddetti “ribelli” ma dalla NATO.
All'interno dell'Hotel dove alloggiamo noi giornalisti subiamo minacce, ci sono falsi giornalisti che in realtà sono agenti della CIA in incognito. [Thierry Meyssan da Tripoli]

                      
Il trattato di Amicizia Italia – Libia.
"Coi traditori né pace né tregua." Proverbio italiano

1915 L'Italia alleata con Austria e Germania entra in guerra ma a fianco di Inghilterra e Francia.
1943 Alleata con Hitler si arrende e passa con gli Usa ed alleati.
2011 Dopo esser stati amici della Libia ora la bombardiamo con gli yankee....
Il doppio giochismo e la vigliaccheria italiana sono famose da molto tempo.
La relazione italo-libica è stata suggellata nel 2009 dal Trattato di Amicizia, Partenariato e Cooperazione, siglato a nome nostro dal presidente Silvio Berlusconi ma derivante da trattative condotte già sotto i governi precedenti, anche di Centro-Sinistra. Tale trattato, oltre a rafforzare la cooperazione in una lunga serie di ambiti, impegnava le parti ad alcuni obblighi reciproci.
Tra essi possiamo citare:
il rispetto reciproco della «uguaglianza sovrana, nonché tutti i diritti ad essa inerenti compreso, in particolare, il diritto alla libertà ed all’indipendenza politica» ed il diritto di ciascuna parte a «scegliere e sviluppare liberamente il proprio sistema politico, sociale, economico e culturale» (art. 2);
l’impegno a «non ricorrere alla minaccia o all’impiego della forza contro l’integrità territoriale o l’indipendenza politica dell’altra Parte» (art. 3);
l’astensione da «qualsiasi forma di ingerenza diretta o indiretta negli affari interni o esterni che rientrino nella giurisdizione dell’altra Parte» (art. 4.1);
la rassicurazione dell’Italia che «non userà, né permetterà l’uso dei propri territori in qualsiasi atto ostile contro la Libia» e viceversa (art. 4.2);
l’impegno a dirimere pacificamente le controversie che dovessero sorgere tra i due paesi (art. 5).
L’Italia è dunque arrivata all’esplodere della crisi libica come alleata di Tripoli, legata alla Libia dalle clausole – poste nero su bianco – di un trattato, stipulato non cent’anni fa, ma nel 2009, e non da un governo passato ma da quello ancora in carica.


La sinistra italiana euro atlantica.
"Una persona onesta sarà sempre contro qualsiasi ingiustizia che si commetta con qualsiasi popolo del mondo, e la peggiore di queste, in questo istante, sarebbe stare zitti di fronte al crimine che la NATO si prepara a commettere contro il popolo della Libia." (F. Castro)

Bersani, segretario del PD, bacchettò l’ONU per aver ritardato di qualche giorno la decisione di dichiarare guerra alla Libia. Peggio fece  il presidente Napolitano, quello che dovrebbe difendere la Costituzione che affiancò i ribelli armati agli occidentali del risorgimento italiano.
(art. 11: L'Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo).
"Nelle prossime ore l'Italia dovrà prendere decisioni difficili, impegnative sulla situazione che si e' venuta a creare in  Libia. Ma se pensiamo a quello che e' stato il Risorgimento come grande movimento liberale e liberatore, non possiamo rimanere indifferenti alla sistematica repressione di fondamentali libertà e diritti umani in qualsiasi Paese. Non possiamo lasciare che vengano distrutte, calpestate, le speranze che si sono accese di un risorgimento anche nel mondo arabo, cosa decisiva per il futuro del mondo. … Mi auguro che le decisioni da prendere, siano dunque circondate dal massimo consenso e dalla consapevolezza dei valori che l'Italia unita incarna e che dobbiamo salvaguardare ovunque" Napolitano

Oggi i sinistrati festeggiano la vittoria imperialista della Nato contro Gheddafi. La motivazione è sempre la stessa. Una guerra che porterà morti e distruzioni viene venduta come un gesto umanitario per la pace e la democrazia. La realtà è un'altra: si chiama saccheggio delle materie prime (petrolio in testa) e smembramento uno dopo l'altro, di tutti gli stati non servili ai potenti Stati Uniti. Il ruolo delle tribù ribelli è stato militarmente marginale. Festeggiare la distruzione di una nazione e le migliaia di morti civili per mano nostra, mostra perfettamente la stupidità del popolo italiano, un popolo servo della BCE che non impara dalla propria storia. Proprio come 100 anni fa (era il 1911) l'Italia ha combattuto una guerra disonorando la nostra costituzione. La guerra in Liba ci ha nuovamente mostrato come la gran parte del "movimento pacifista" in realtà sia solo uno strumento politico. Ad inizio millenio il centrosinistra usò il movimento per la pace come parte radicale della sua proposta, oggi che il Partito Democratico e più interventista della destra stessa, di quel movimento ne resta solo lo spettro. In questi giorni tanto si parla di questi presunti indignati. Soros ieri finanziava le rivoluzioni colorate, ora finanzia gli indignati americani. Ma nessuno si pone i giusti interrogativi. Sulla  guerra imperialista gli indignati sono assenti. Una parte di loro pensa, e lo ha ribadito a Matrix in diretta tv, che la crisi non è del sistema, ma della "democrazia" che causa la crisi economica. Penso che dopo una tale boiata posso dirvi: "morirete in catene".
La crisi è invece di sistema e la guerra ne è parte fondante.
Bisogna avere il coraggio politico per opporsi alle guerre imperialiste, per chiedere l'uscita dalla NATO delle guerre e dall'Unione Europea delle Banche.
La sovranità nazionale e il socialismo come perno fondante della lotta al sistema.
Per farlo in Italia bisogna staccarsi culturalmente e politicamente da questo centrosinistra liberista e umanamente infimo. I sinistrati si scagliano contro la pena di morte giustamente, ma poi sono lì a gioire delle morti più macabri. Da Saddam a Gheddafi. I civili morti in Libia diventano una statistica. Tutti ad urlare "ora tocca a Berlusconi". Sembra quasi sia un videogioco. Invece è una guerra che ha portato migliaia di morti e distruzione per motivi geopolitici e di materie prime. L'Italia è stata in guerra con la Libia da mesi, ma pochi si sono "indignati". Anzi, oggi i commenti
sono  per lo più di gioia. Sinistri personaggi che dicono: dopo Saddam e Gheddafi tocca a Berlusconi. Perchè se i mass media dicono che la guerra è giusta, chi siamo noi per opporci a tale disgrazia sociale?

Arrivederci Grande Jamāhīriyya Araba Libica Popolare Socialista. Nei prossimi anni un mare di fango proverà a cancellare la tua storia. Ma la tua storia continuerà a vivere per l'indipendenza della Libia contro l'occidente colonialista e i servi del dio denaro.

Non andrò via, morirò da martire (Gheddafi)

Al di la del giudizio che si può dare sui quarant'anni della direzione politica di Gheddafi, oggi Gheddafi si comporta come un grande patriota arabo e come un patriota libico. Si comporta come Abd el-Krim, si comporta come Nasser e come Omar al-Mukhtar. Per tanto è doveroso essere totalmente al fianco del popolo libico aggredito e della direzione politica di Gheddafi. (Preve)

Hanno assassinato Gheddafi, e ora sarà un martire, è stato un lottatore lungo tutta la sua vita e gli Stati Uniti ed i loro alleati europei stanno incendiando il mondo (Chavez)

Andrea 'Perno' Salutari
Coordinatore provinciale dei Giovani Comunisti Torino 2.0