martedì 29 novembre 2011

Gli anticapitalisti, le nazioni e l’internazionalismo

di Stefano D’Andrea

E’ stimolante rileggere il Manifesto del Partito Comunista a piccole dosi. Brani isolati. Pochi pensieri. Per lo più stringati ragionamenti su innumerevoli concetti importanti della vita, della politica, della società.

Alcuni brani appaiono totalmente condivisibili. Il giudizio di valore o il giudizio storico è rimasto identico. Altri brani necessitano di un semplice adeguamento linguistico. In particolare i termini “borghese” e “borghesia” non sono adatti a descrivere alcun fenomeno del mondo moderno, perché, per molti versi, la borghesia alla quale Marx ed Engels alludevano non esiste più. Anche il termine proletariato, con riguardo alle realtà politiche dell’occidente sviluppato, è poco calzante. Non perché non esistano realtà fenomeniche definibili mediante tale termine. Bensì perché esso designa una parte del tutto, che è costituito dai lavoratori – anche autonomi, oltre che subordinati- anzi, più precisamente, dagli spiriti anticapitalistici. Molti lavoratori, infatti, non sono minimamente contrari alla suprema regola della valorizzazione del capitale. Basta però sostituire il termine che appare indebolito con un termine di uso più comune (per esempio, secondo il mio avviso,“proletariato” con “partito anticapitalista”) ed ecco che la frase ha un significato chiaro e sovente pienamente condivisibile. Altri brani non ci trovano d’accordo e spesso non ci hanno mai persuaso. Con riguardo a questi brani è piacevole fissare il nostro pensiero prendendo le distanze da due giganti. Lo stile del Manifesto è limpido: obbliga a chiarire il dissenso e impegna ad adottare uno stile altrettanto cristallino.

C’è un brano del Manifesto del Partito Comunista appositamente dedicato al concetto di nazione:

“Si è inoltre rimproverato ai comunisti di voler liquidare la patria, la nazionalità.
I lavoratori non hanno patria. Non si può togliere loro ciò che non hanno. Dovendo anzitutto conquistare il potere politico, elevarsi a classe nazionale, costituirsi in nazione, il proletariato resta ancora nazionale, ma per nulla affatto nel senso in cui lo è la borghesia.
Le divisioni e gli antagonismi nazionali fra i popoli tendono sempre più a scomparire già con lo sviluppo della borghesia, con la libertà del commercio, con il mercato mondiale, con l’uniformità della produzione industriale e delle condizioni di vita che ne derivano.
Il potere proletario li farà scomparire ancora di più. L’azione comune almeno dei paesi più civilizzati è una delle prime condizioni della sua liberazione.
In tanto in quanto viene eliminato lo sfruttamento del singolo individuo da parte di un altro, svanisce anche lo sfruttamento di una nazione da parte di un’altra.
Con l’antagonismo delle classi all’interno delle nazioni cade la reciproca ostilità fra le nazioni”.

Il brano stupisce e spinge a chiedere: quanti comunisti lo hanno letto con attenzione? Esso contiene affermazioni sistematicamente negate da moltissimi comunisti delle ultime due generazioni.

Intanto Marx ed Engels stanno difendendo i comunisti dall’accusa “di voler liquidare la patria, la nazionalità”. Essi non scrivono “è vero”, precisando poi in che senso l’accusa è fondata, come invece fanno con riguardo ad altre accuse rivolte ai comunisti. Al contrario, replicano: non è vero che i comunisti vogliono liquidare la patria, la nazionalità.

Paradossalmente, nella forma dello slogan (“il proletariato non ha nazione”), ha avuto successo l’affermazione secondo la quale “I lavoratori non hanno patria”. Ma essa o è smentita dal contesto linguistico – direi da tutte le altre proposizioni – ; oppure, più esattamente, va intesa in senso molto lato; è un’iperbole che vuole contestare l’idea di nazione delle classi dominanti, non l’idea di nazione in sé. Infatti, quando gli autori iniziano l’analisi, assegnano al concetto di nazione un ruolo imprescindibile e fondativo: “Dovendo anzitutto conquistare il potere politico, elevarsi a classe nazionale, costituirsi in nazione, il proletariato resta ancora nazionale, ma per nulla affatto nel senso in cui lo è la borghesia”.

I comunisti, dunque, sono comunisti di una nazione: vogliono che la nazione sia comunista. Le nazioni sono perenni e ci saranno anche quando i comunisti avranno preso il potere. Sono “Le divisioni e gli antagonismi nazionali fra i popoli” che, secondo Marx ed Engels, tendono a scomparire; non le nazioni. Già lo sviluppo del mercato mondiale tenderebbe a questo risultato – e qui non direi che il carattere futurologico del pensiero Marxiano abbia colto nel segno -; “Il potere proletario li farà scomparire ancora di più”. Sarebbero scomparsi gli antagonismi nazionali. Non le nazioni: “svanisce anche lo sfruttamento di una nazione da parte di un’altra”. Svanisce lo sfruttamento di una nazione sull’altra. Non le nazioni, che anzi, nell’ottica del Manifesto, permangono.

Dunque i comunisti (oggi direi più semplicemente i membri del partito anticapitalista) sono e non possono che essere nazionali, perché aspirano a conquistare il potere politico e ad elevarsi a classe nazionale – altrimenti il tentativo fallirebbe ben presto. L’organizzazione politica dei comunisti, secondo Marx ed Engels, non sarebbe stata aggressiva nei confronti delle altre nazioni. Perciò, il mondo ideale, immaginando che i comunisti avessero preso il potere in ogni nazione – si fossero elevati ovunque a classe nazionale –, sarebbe stato un mondo di nazioni pacifiche.


E l’internazionalismo che cos’è? E’ “l’azione comune” dei proletari delle varie nazioni, la quale “è una delle prime condizioni” della liberazione del proletariato (oggi degli anticapitalisti). Nel Manifesto del Partito Comunista non vi è un progetto paragonabile alla Ummah che gli islamisti internazionalisti vorrebbero ricostruire. Questi ultimi sono talvolta contrari agli stati nazionali, perché quegli stati – quei confini, quei regnanti e quelle nazioni – sono stati imposti dalle nazioni imperialistiche e colonialistiche straniere. Dunque gli islamisti internazionalisti, oltre a voler ricostituire il califfato (l’unità politica superiore) che copra tutti i terreni dell’islam (in senso stretto), vorrebbero o sarebbero disposti anche a modificare i confini delle unità politiche derivate o secondarie. Niente di tutto ciò emerge dal brano del Manifesto del Partito Comunista appositamente dedicato alle nazioni. Marx ed Engels non pensano ad un super stato (uno stato mondiale o universale) comunista; e non contestano le ragioni e le lotte in forza delle quali erano sorti gli stati nazionali europei – d’altra parte, Engels aveva combattuto sulle barricate per la creazione della Germania. “L’azione comune” è la solidarietà internazionale; solidarietà di pensiero e di azione. Allora perché i proletari di ogni nazione conquistassero il potere nella loro nazione; e oggi perché il partiti anticapitalisti conquistino il potere nelle rispettive nazioni.

Quale deve essere oggi la linea politica del partito anticapitalista rispetto all’idea di nazione? Credo che debba essere, nelle linee essenziali, quella tracciata nel Manifesto del Partito Comunista, la quale, paradossalmente, non ha nulla a che vedere con quella seguita, generalmente, dai comunisti delle ultime due generazioni.

Dunque l’ideale è che gli anticapitalisti si facciano classe nazionale e che proliferino nazioni anticapitaliste. L’avversione dei comunisti delle ultime due generazioni per il concetto di nazione è ingenua, frutto di posizioni irrealistiche, contraria alla storia dei comunisti (quando erano veramente comunisti) e generatrice di un universalismo falso che non consente la critica della globalizzazione. Un universalismo che non preme per la nascita di una forte volontà di ridurre gli scambi internazionali (i quali, sovente, hanno come unica ragion d’essere la valorizzazione del capitale). Non muove dal riconoscimento, ad ogni partito anticapitalistico, della piena dignità e legittimazione a perseguire e a edificare una società anticapitalistica singolare, particolare, originale e unica. Marx ed Engels avevano intuito, infatti, che sono i detentori (e oggi anche i gestori) dei grandi capitali a voler distruggere le nazioni e prima ancora ad avere interesse a distruggerle. Si legge in altro luogo del manifesto:

Il bisogno di uno smercio sempre più esteso per i suoi prodotti sospinge la borghesia a percorrere tutto il globo terrestre. Dappertutto deve annidarsi, dappertutto deve costruire le sue basi, dappertutto deve creare relazioni.


Con lo sfruttamento del mercato mondiale la borghesia ha dato un'impronta cosmopolitica alla produzione e al consumo di tutti i paesi. Ha tolto di sotto i piedi dell'industria il suo terreno nazionale, con gran rammarico dei reazionari. Le antichissime industrie nazionali sono state distrutte, e ancora adesso vengono distrutte ogni giorno. Vengono soppiantate da industrie nuove, la cui introduzione diventa questione di vita o di morte per tutte le nazioni civili, da industrie che non lavorano più soltanto le materie prime del luogo, ma delle zone più remote, e i cui prodotti non vengono consumati solo dal paese stesso, ma anche in tutte le parti del mondo. Ai vecchi bisogni, soddisfatti con i prodotti del paese, subentrano bisogni nuovi, che per essere soddisfatti esigono i prodotti dei paesi e dei climi più lontani. All'antica autosufficienza e all'antico isolamento locali e nazionali subentra uno scambio universale, una interdipendenza universale fra le nazioni. E come per la produzione materiale, così per quella intellettuale. I prodotti intellettuali delle singole nazioni divengono bene comune. L'unilateralità e la ristrettezza nazionali divengono sempre più impossibili, e dalle molte letterature nazionali e locali si forma una letteratura mondiale”.

E’ la suprema regola secondo la quale occorre massimizzare la valorizzazione del capitale ad essere contraria alle nazioni, nel senso che i titolari e i gestori di grandi o medi capitali perseguono l’omogeneità dei consumatori, l’apertura e la scomparsa dei confini, la libertà di circolazione delle merci, del lavoro e dei capitali. Gli appartenenti ad una nazione che hanno accumulato un certo capitale, nonché gli appartenenti a quella medesima nazione che si trovino a gestire grandi capitali, hanno interesse a “investire” o semplicemente ad acquistare azioni e in genere titoli ovunque reputino che gli investimenti o i titoli siano redditizi. Il capitale risparmiato da un imprenditore di una nazione con cento anni di svolgimento di un’attività di impresa e quindi con l’apporto di lavoratori di una nazione (italiani per esempio) durante cento anni, a un certo punto è impiegato per acquistare materie prime da soggetti dello stato A, per produrre nello stato B e vendere nello stato C, anche se né A, né B e né C sono gli stati originari nei quali è stato accumulato quel capitale. Il capitalismo deve funzionare. E per funzionare non deve trovare attriti: giuridici; religiosi; posti da secolari tradizioni; derivanti dalla eterogeneità dei consumatori. Il capitale ha la vocazione per lo spazio planetario e lo vuole senza frontiere.

Siamo dinanzi ad un apparente paradosso. Il capitale può riuscire a massimizzare la propria valorizzazione soltanto abbattendo e distruggendo sempre più gli Stati Nazione; o comunque internazionalizzandosi rallenta la caduta tendenziale del tasso di profitto. Gli anticapitalisti – che è bene siano uniti nonostante tutte le possibili diversità di obiettivi (in realtà gli anticapitalismi si differenziano per la diversità dei valori o beni che in via prioritaria si vogliono sottrarre alla logica necrofila del capitale) – “devono farsi nazione” (come scrivevano Marx ed Engels con riguardo ai Comunisti); devono conquistare il potere nelle nazioni e cominciare così o a sottrarre al capitale, in uno o più luoghi della terra, il dominio sulla nuda vita degli uomini; o, comunque, a ridurre l’ambito e le forme di quel dominio. Per il capitale le nazioni sono un ostacolo. Per gli oppositori del capitalismo – ossia della suprema regola secondo la quale lo scopo dell’attività sociale dell’umanità deve essere quello di massimizzare la valorizzazione del capitale – l’edificazione di una nazione anticapitalistica è l’obiettivo.

Se oggi l’anticapitalismo, in tutte le sue forme, nuove e vecchie (compresa quella, “relativa” ma significativa, della socialdemocrazia) è così debole, ciò è dovuto allo stato oggettivo in cui sono state ridotte molte nazioni, ma anche e soprattutto alla irragionevolezza degli anticapitalisti, i quali, osteggiando il concetto di nazione, sono destinati a restare nello stato velleitario delle declamazioni fumose, posto che il loro obiettivo dovrebbe essere quello di impegnarsi per costruire nazioni anticapitaliste. E va da sé che, se è giusto solidarizzare con anticapitalisti di altre nazioni ed eventualmente partecipare a una o altra battaglia reputata importante, è pur sempre ovvio che, per mille ragioni, gran parte dell’impegno di ogni anticapitalista dovrebbe essere indirizzato ad indebolire, all’interno della propria nazione, la forza della regola sulla quale affondano pressoché tutte le costituzioni nazionali: il capitale si deve valorizzare.

Fonte: Appello al popolo

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