"I popoli non dovrebbero avere paura dei propri governi, sono i governi che dovrebbero aver paura dei popoli" (T.Jefferson)
Il grandissimo corteo No Tav di sabato, più di 75mila partecipanti, ha dimostrato per l'ennesima volta la forza di questo bellissimo movimento, che non si spaventa dell'arrogante (in)giustizia, che tenta, con la provocazione dei potenti e la violenza della polizia, di dividere e indebolire il movimento. Otto chilometri di marcia pacifica in solidarietà con gli arrestati sono state l'ottima risposta del movimento agli espropri dei terreni di questi giorni. Gli slogan più usati sono stati: "La valle non si criminalizza", "Il dissenso non si arresta", "Liberi tutti".
"Bisogna continuare a dire no alla Tav e non fermarsi mai [..] Sono i nostri terreni, ci faremo portare via di peso piuttosto che lasciarli. Non ci importa di ordinanze e leggi, perché come diceva Gandhi le leggi che non sono giuste si ignorano e non si rispettano. Difenderemo la nostra la nostra terra a costo della nostra vita e della nostra libertà" (Perino)
Da vent'anni le argomentazioni del movimento sono documentabili, visibili e concrete. Per sintetizzare in quattro punti. La Tav è:
Inutile. La linea (storica) esiste già ed è sotto-utilizzata. Il TGV che da Torino va a Parigi già esiste, e lo scalo di Lione è stato soppresso per mancanza di passeggeri. Inoltre la domanda del traffico merci secondo le stime è in diminuizione.
Gravosa. Grave rischio causato da amianto e uranio ampiamente presenti nel sottosuolo valsusino.
Spreco di denaro pubblico. Il costo di un km di Tav si aggira intorno ai 100 milioni di euro e l'attuale militarizzazione della valle raddoppiano queste cifre
Infiltrazioni mafiose. Dalla relazione 2011 della Direzione Nazionale Antimafia, emerge un quadro più che inquietante sull’andamento dei lavori per la costruzione della tratta Torino-Lione.
Il movimento ha una forza inesauribile proveniente dalla ragione e dalla riconquista della parte più genuina dell'umanità. Un fiume di passione, speranza e lotta percorre la valle e travolge i sopprusi dei potenti che malgovernano il nostro stato. Non possono sconfiggere la forza del popolo della valle e non gli resta che aggredire, arrestare, denigrare i No Tav, simbolo perfetto di un popolo che si ribella alle logiche di mercato, un movimento che rimette la vita delle persone davanti ai profitti.
La difficoltà della loro non democrazia li mette con le spalle al muro e posso solo rispondere con aggressioni.
La solita oceanica manifestazione pacifica non era utile ai loro fini denigratori contro il movimento No Tav.
Come a Venaus nel 2005, sabato l'ennessima provocazione scellerata dentro la stazione Torino Porta Nuova, che ci ha ricordato che Spartaco Mortola è il capo della Polfer di Torino, lo stesso Mortola già condannato in secondo grado, in due procedimenti: per l'irruzione alla Scuola Diaz nel G8 di Genova dieci anni or sono e per induzione alla falsa testimonianza dell'allora questore Colucci (1). Il capo della polizia, Antonio Manganelli, si era detto preoccupato per un aumento del dissenso. Ecco come pensano di ridurre il dissenso: con il manganello e le violenze. (2)
Al termine di una partecipatissima giornata di solidarietà e di coesione nessuno si sarebbe aspettato un epilogo così sconcertante.
Sono arrivato alla stazione sul tardo pomeriggio, non c'era alcuna tensione. Avevamo notato le transenne al binario 20, il bar del binario stranamente chiuso, dall'altra parte della stazione una numerosa presenza di poliziotti antisommossa. Ingenuamente abbiamo pensato che il treno era privato e che le ingenti forze dell'ordine aspettavano qualche illustre uomo politico, una scorta. Non avrei mai pensato ad un atto sciacallo come quello poliziesco.
Prima di tornare a casa ho solidarizzato con i lavoratori in lotta della Wagon Lits, con gli 800 lavoratori licenziati. Spreco di denaro pubblico per unatratta che non vuole nessuno (Torino-Lione) e licenziamento di lavoratori e smembramento di un centinaio di carrozze ferroviarie.
I treni notte che uniscono il nord e il sud del paese e i treni per i pendolari sono utili e necessari a differenza dell'alta velocità, anzi alta capacità, Torino Lione. I lavoratori hanno già superato le 100mila firme, solo a Torino Porta Nuova ne hanno raccolte 40mila. (Colgo l'occosione per invitarvi a firmare al loro banchetto che troverete in stazione).
Ma torniamo a sabato e alla vergognosa operazione da cui si possono trarre due conclusioni importanti.
La prima è che la criminalizzazione è un’arte tra le più padroneggiate per sabotare i movimenti popolari.
La seconda è che la lotta No-tav è nel pieno delle sue forze e preoccupa molto gli speculatori e i loro cani da guardia.
Descrivere con le parole cosa è successo sabato mi fa male, dovrebbe far male a tutti.
I poliziotti antisommossa hanno militarizzato una stazione, hanno recintato con le transenne l'ultimo binario, il 20. I No Tav si sono trovati schiaccati tra il treno e il muro. I poliziotti hanno caricato senza alcun reale motivo, se non per reprimere il dissenso, per lanciare un messaggio al popolo: chi contesta le decisioni dovrà assaggiare la violenze dello stato. Successivamente è iniziata la cacciA all'uomo che contesta la truffa della TAV.
Il Treno che porta a Milano è un simbolo. E' il treno, infatti che collega Torino con il resto d'Italia. La stazione di Milano.
"Ero sul treno delle 19,50 per Milano e ho assistito a delle azioni assolutamente ingiustificate e ingiustificabili delle forze dell'ordine che, a un certo punto, parevano avere perso completamente la testa arrivando a prendere manganellate, oltre che le persone, i finestrini del treno. Ccredo che ci dovrebbe essere un'inchiesta su quanto è accaduto anche perchè dopo un'eccezionale manifestazione pacifica e non violenta, questo episodio pare messo lì apposta, e non certo dai manifestanti, per macchiare una giornata splendida" (G.Cremaschi)
La manipolazione dei media, a partire dallo stesso TGR, è evidente. La polizia ha caricato senza un reale motivo, ha usato lacrimogeni in stazione il cui fumo ha inondato il treno direzione Milano. I TG hanno volutamente esplicitato che la polizia non ha usato lacrimogeni e hanno montato le immaginani al contrario, mostrando prima l'isolata risposta dei no tav e poi il primario attacco violento della polizia. Trovo riduttivo descrivere con le parole quello che è successo, guardate i video finchè non li faranno sparire dal web. Diffondete la verità.
Dopo neanche 48 ore arriva un nuovo blitz militare.
Un ingente presenza della forze dell'ordine, militari, ruspe, hanno invaso questo bellissimo territorio per imporre con la forza le scelte suicide delle lobby. L'esproprio dei terreni è arrivato prima del previsto, avevano paura della risposta della valle e come sempre, hanno agito nell'ombra. Luca Abba, 37 anni, molto conosciuto in valle per la sua opposizione alla tav, è in pericolo di vita.
Le condizioni di Luca sono stazionarie, verrà mantenuto in coma farmacologico almeno per due o tre giorni, ovvero fino a quando non si concluderà la fase di sviluppo delle complicazioni dovute alle folgorazioni e alle conseguenti ustioni di secondo grado.
Luca si è arrampicato su un traliccio per resistere pacificamente alle truppe d'occupazione, un poliziotto, come si vede dal video, lo ha inseguito.
E' rimasto folgorato dall'alta tensione. I soccorsi sono tardati ad arrivare, i lavori invece non si sono fermati neanche per pochi istanti, dimostrando ancora una volta che quando ci sono di mezzo i soldi, la vita delle persone, per loro, non ha importanza.
Luca è un agricoltore della valle, è un no tav e lo sarà ancora, questa è la mia speranza.
"Io abito da 10 anni in una borgata dell’alta valle Susa, nella casa dove nacque mio padre e dove hanno vissuto fino alla morte i miei nonni, sono coltivatore diretto da anni e vivo del reddito che mi fornisce la Terra tramite i suoi prodotti, faccio anche saltuari servizi di giardinaggio e il tempo che dedico (volentieri) alla lotta No Tav lo ritaglio tra il lavoro e le mille faccende della vita di campagna. L’amore per la Terra e per questa valle mi spinge a difenderla fino in fondo dalle mani avide degli speculatori" (Luca Abba')
L'ennesimo blitz militare mostra cos'è la loro democrazia: nessuna copertura legale, hanno attuato un'azione militare, come in guerra, disprezzando anche la vita umana. Chiomonte, Maddalena, Bussoleno, da paesini sconosciuti della Val Susa, sono divenuti ormai luoghi simbolo di resistenza, contro un'opera inutile dal punto di vista del miglioramento dei trasporti, dannosa dal punto di vista ambientale, efficace solo per sperperare denaro pubblico e arricchire speculatori e investitori. Per costruire la Tav dovranno passare sui nostri corpi, sulla democrazia e sulla costituzione. Per questo noi ci definiamo nuovamente partigiani della valle. C’è un legame di memoria storica tra la vecchia e la nuova resistenza. E' una lotta proveniente da diverse posizioni politiche, intergenerazionale, è una lotta fondata su una prospettiva sociale e ambientale che percorre i veri valori dell'uomo.
“Sicuramente, anche perché non c’è alternativa: se non vinciamo moriamo tutti, non solo psicologicamente, ma anche fisicamente, per tutti i veleni che butterebbero nell’aria. La nostra è una lotta per il diritto ad esistere e siamo convinti che vinceremo: sono più deboli di noi, non solo perché inferiori numericamente, ma perché le loro ragioni sono squallide. La nostra lotta è diventata emblematica e ha dato forza a tante altre lotte, se noi perdiamo perdono tutti. Sappiamo di non poter cedere anche per gli altri movimenti italiani, siamo il segno che la lotta paga ed è possibile farla: vincere da coraggio, ti fa sentire libero. A loro fa paura la popolazione che decide di non accettare, perché sanno che se iniziamo a difenderci non avranno più il controllo. La famosa interiorizzazione della sconfitta è quella che impediva alla gente di difendersi, ma ora abbiamo deciso che non è vero che non si può far niente. La Val di Susa ha scelto di non arrendersi: siamo un fiume che scende a valle, non ci potranno fermare.” (N.Dosio)
La lotta ventennale del movimento No TAV spaventa, è la dimostrazione che dal basso e con tenacia le decisioni scellerate dei potenti possono venire bloccate. I media manipolano le informazioni ed invitano il movimento ad abbandonare la valle, perchè a dir loro, il movimento è stato sconfitto. Lo stato ha deciso di ignorare il dialogo e di imporre le loro decisioni militarmente, come ai tempi dell'occupazione nazista. E' in atto una vera guerra, con mezzi blindati e con la propaganda. In gioco c'è la democrazia e un nuovo stato politico e sociale. Ci spingono ad abbandonare, ci arrestano, ci caricano violentemente, ci intimidiscono, ci minacciano e ci spingono a morire. Tutto questo per un motivo: hanno paura della vittoria del movimento No Tav e della possibile reazione sociale che a catena potrebbe trasformare l'intero paese. Per questo oggi più che mai non molleremo. Sarà dura!
"Le prossime mosse del Movimento tutti le scopriranno al momento opportuno" (Perino)
Andrea 'Perno' Salutari
Fonte: Patria del Ribelle
martedì 28 febbraio 2012
La reazione a catena No TAV che spaventa il sistema
Con Luca a terra continuavano a lavorare
«Sono arrivati a tirare i lacrimogeni dentro le case stanotte».
Nicoletta Dosio una delle grandi voci del movimento No Tav racconta con lucida indignazione dell'ennesima notte di repressione che lo Stato sta portando avanti in Val Susa
«Ieri notte abbiamo tentato di bloccare i poliziotti. Dovevano fare il cambio di turno e abbiamo cercato di impedire a quelli che uscivano dall'Alta valle per andare verso Torino e il Sestriere, nei loro alberghi. Ci siamo mossi verso l'1 e la gente è scesa in strada ma un ora dopo sono arrivati contemporaneamente quelli che dovevano smontare il turno e quelli che dovevano iniziare. Ci siamo ritrovati con centinaia e centinaia di agenti contro, quasi una camionetta a testa. Sono partiti con idranti e lacrimogeni. Noi siamo scesi dall'autostrada per tornare alle automobili. Loro hanno fatto una manovra di accerchiamento e ci hanno inseguito nel paesino di Salbertrand tirando lacrimogeni fin dentro le case. La gente ci ha accolto e ospitato. Si pensava che dopo il quasi assassinio di Luca avrebbero diminuito l'aggressività invece erano ancora più arroganti. Evidentemente il loro capo Manganelli da loro la forza e l'autorità per essere esecutori consenzienti dell'arroganza fascista».
Di Luca che notizie si hanno?
«Anche stamattina ci hanno detto che è stazionario. In una situazione difficile, maciullato dalla caduta e dalla folgorazione ma non sembra in pericolo di vita anche se resta in rianimazione. Ieri ad un certo punto mi era arrivata una comunicazione terribile che per fortuna si era rivelata non esatta. Ma l'intera vicenda è assurda e dimostra come non esistano neanche le più elementari forme di rispetto della democrazia borghese».
Una dinamica da raccontare.
«Luca è caduto perché i poliziotti lo inseguivano. Luca ha anche formalmente la proprietà di una parte di quei terreni è un contadino. Eppure, con il suo corpo per terra, sono ripresi i lavori. I 20 ragazzi che erano con lui sono rimasti nella baita mentre veniva spianato il bosco di castagni che anche Luca aveva contribuito a costruire. Ora è rimasto il deserto e solo la baita. Il magistrato è arrivato, hanno interrogato i ragazzi come testimoni e ora sono anche inquisiti. Siamo in pieno fascismo. Hanno fatto leggi che neanche rispettano. Noi proprietari dei terreni non siamo stati informati dell'esproprio. Chi lo ha svolto non ci ha mostrato alcuna autorizzazione. Hanno alzato le loro reti come fosse un carcere. Qui la democrazia non esiste più, esiste l'arbitrio per cui quando neanche le loro leggi sono sufficienti passano al manganello. Un gruppo di noi ieri mattina è stato bloccato mentre tentava di raggiungere Luca e gli altri. Gli agenti che avevano già saputo di quanto accaduto ci ridevano in faccia. Questa è la situazione».
E gli operai hanno continuato i lavori come nulla fosse?
«Si, sono stati anche richiamati in servizio quelli dell'Italcoge che era in fallimento. Si è trattato di una operazione mass mediatica squallida per dimostrare che se si aprono i cantieri si crea lavoro. Ma che lavoro? Si tratta di schiavi consenzienti che oggi si prestano a un lavoro indecente e che domani – se un giorno dovesse cominciare la realizzazione della galleria – cominceranno a morire per l'amianto e l'uranio che si troveranno addosso. Ma non insegna nulla il processo Eterniti? Operai che hanno continuato, richiamato in servizio Italcoge grancassa mas mediatica cantiere che se si apre da lavoro, schiavi consenzienti, amianto uranio morire per lavoro indecente e conseguenze processo eternit. Quest'opera corrompe anche moralmente, dimostra come si possano avvelenare contemporaneamente il mondo e le coscienze e portare ad un deserto ambientale e umano»
.
Oggi come prosegue?
«Abbiamo dalla mattinata ripreso a fare i blocchi autostradali. Con noi c'è molta gente, ci sono giovani e anziani. La partecipazione alla manifestazione di sabato dimostra che non si molla. Gli elicotteri volano sulle nostre teste e ci attendiamo altri attacchi ma resisteremo. Qui c'è gente determinata e la grande e lucida rabbia che cresce è un carburante potente. Non riusciranno a spegnerla con gli idranti. Stasera, come ogni sera, ci riuniremo in assemblea e decideremo come andare avanti. Secondo me la rabbia e l'arroganza della polizia è un segnale di debolezza che dobbiamo cogliere. La nostra è una ragione collettiva che può e deve vincere, e poi scopriamo sempre più di non essere soli».
A cosa ti riferisci?
«Alle infinite manifestazioni di solidarietà di ieri. Ai tanti e alle tante che sono scesi in piazza per tutta Italia, fino alla Sicilia anche con le nostre bandiere per confermarci che sono con noi. Vorremmo abbracciarle tutte quelle manifestazioni. Una solidarietà ci rafforza, ci fa credere ancora di più di avere ragione e che ci conferma come tante lotte e vertenze siano collegate alla nostra e ognuna si rafforza grazie alle altre. Uno spirito di fratellanza che ci permette di lottare per difendere il futuro. Un pensiero però va ancora ai nostri compagni arrestati per quello che pensano. Li vogliamo liberi».
Fonte: Contro la crisi
Nicoletta Dosio una delle grandi voci del movimento No Tav racconta con lucida indignazione dell'ennesima notte di repressione che lo Stato sta portando avanti in Val Susa
«Ieri notte abbiamo tentato di bloccare i poliziotti. Dovevano fare il cambio di turno e abbiamo cercato di impedire a quelli che uscivano dall'Alta valle per andare verso Torino e il Sestriere, nei loro alberghi. Ci siamo mossi verso l'1 e la gente è scesa in strada ma un ora dopo sono arrivati contemporaneamente quelli che dovevano smontare il turno e quelli che dovevano iniziare. Ci siamo ritrovati con centinaia e centinaia di agenti contro, quasi una camionetta a testa. Sono partiti con idranti e lacrimogeni. Noi siamo scesi dall'autostrada per tornare alle automobili. Loro hanno fatto una manovra di accerchiamento e ci hanno inseguito nel paesino di Salbertrand tirando lacrimogeni fin dentro le case. La gente ci ha accolto e ospitato. Si pensava che dopo il quasi assassinio di Luca avrebbero diminuito l'aggressività invece erano ancora più arroganti. Evidentemente il loro capo Manganelli da loro la forza e l'autorità per essere esecutori consenzienti dell'arroganza fascista».
Di Luca che notizie si hanno?
«Anche stamattina ci hanno detto che è stazionario. In una situazione difficile, maciullato dalla caduta e dalla folgorazione ma non sembra in pericolo di vita anche se resta in rianimazione. Ieri ad un certo punto mi era arrivata una comunicazione terribile che per fortuna si era rivelata non esatta. Ma l'intera vicenda è assurda e dimostra come non esistano neanche le più elementari forme di rispetto della democrazia borghese».
Una dinamica da raccontare.
«Luca è caduto perché i poliziotti lo inseguivano. Luca ha anche formalmente la proprietà di una parte di quei terreni è un contadino. Eppure, con il suo corpo per terra, sono ripresi i lavori. I 20 ragazzi che erano con lui sono rimasti nella baita mentre veniva spianato il bosco di castagni che anche Luca aveva contribuito a costruire. Ora è rimasto il deserto e solo la baita. Il magistrato è arrivato, hanno interrogato i ragazzi come testimoni e ora sono anche inquisiti. Siamo in pieno fascismo. Hanno fatto leggi che neanche rispettano. Noi proprietari dei terreni non siamo stati informati dell'esproprio. Chi lo ha svolto non ci ha mostrato alcuna autorizzazione. Hanno alzato le loro reti come fosse un carcere. Qui la democrazia non esiste più, esiste l'arbitrio per cui quando neanche le loro leggi sono sufficienti passano al manganello. Un gruppo di noi ieri mattina è stato bloccato mentre tentava di raggiungere Luca e gli altri. Gli agenti che avevano già saputo di quanto accaduto ci ridevano in faccia. Questa è la situazione».
E gli operai hanno continuato i lavori come nulla fosse?
«Si, sono stati anche richiamati in servizio quelli dell'Italcoge che era in fallimento. Si è trattato di una operazione mass mediatica squallida per dimostrare che se si aprono i cantieri si crea lavoro. Ma che lavoro? Si tratta di schiavi consenzienti che oggi si prestano a un lavoro indecente e che domani – se un giorno dovesse cominciare la realizzazione della galleria – cominceranno a morire per l'amianto e l'uranio che si troveranno addosso. Ma non insegna nulla il processo Eterniti? Operai che hanno continuato, richiamato in servizio Italcoge grancassa mas mediatica cantiere che se si apre da lavoro, schiavi consenzienti, amianto uranio morire per lavoro indecente e conseguenze processo eternit. Quest'opera corrompe anche moralmente, dimostra come si possano avvelenare contemporaneamente il mondo e le coscienze e portare ad un deserto ambientale e umano»
.
Oggi come prosegue?
«Abbiamo dalla mattinata ripreso a fare i blocchi autostradali. Con noi c'è molta gente, ci sono giovani e anziani. La partecipazione alla manifestazione di sabato dimostra che non si molla. Gli elicotteri volano sulle nostre teste e ci attendiamo altri attacchi ma resisteremo. Qui c'è gente determinata e la grande e lucida rabbia che cresce è un carburante potente. Non riusciranno a spegnerla con gli idranti. Stasera, come ogni sera, ci riuniremo in assemblea e decideremo come andare avanti. Secondo me la rabbia e l'arroganza della polizia è un segnale di debolezza che dobbiamo cogliere. La nostra è una ragione collettiva che può e deve vincere, e poi scopriamo sempre più di non essere soli».
A cosa ti riferisci?
«Alle infinite manifestazioni di solidarietà di ieri. Ai tanti e alle tante che sono scesi in piazza per tutta Italia, fino alla Sicilia anche con le nostre bandiere per confermarci che sono con noi. Vorremmo abbracciarle tutte quelle manifestazioni. Una solidarietà ci rafforza, ci fa credere ancora di più di avere ragione e che ci conferma come tante lotte e vertenze siano collegate alla nostra e ognuna si rafforza grazie alle altre. Uno spirito di fratellanza che ci permette di lottare per difendere il futuro. Un pensiero però va ancora ai nostri compagni arrestati per quello che pensano. Li vogliamo liberi».
Fonte: Contro la crisi
venerdì 24 febbraio 2012
Il mio paese, la Grecia
di Mikis Theodorakis
Esiste un complotto internazionale che ha l'obiettivo di cancellare il mio paese. E' iniziato nel 1975...
opponendosi alla civiltà neo-greca, è continuato con la distorsione sistematica della nostra storia contemporanea e della nostra identità culturale e adesso sta cercando di cancellarci anche materialmente con la mancanza di lavoro, la fame e la miseria. Se il popolo greco non prende la situazione in mano per ostacolarlo, il pericolo della sparizione della Grecia è reale. Io lo colloco entro i prossimi 10 anni.
Di noi, resterà solo la memoria della nostra civiltà e delle nostre battaglie per la libertà.
Fino al 2009 il problema economico non era grave. Le grandi ferite della nostra economia erano la spesa esagerata per la difesa del paese e la corruzione di una parte dei politici e dei giornalisti. Per queste due ferite, però, erano corresponsabili anche dei paesi stranieri. Come la Germania, la Francia, il Regno Unito e gli Stati Uniti che guadagnavano miliardi di euro da noi con la vendita annuale di materiale bellico. Questa emorragia continua ci metteva in ginocchio e non ci permetteva di crescere mentre offriva grandi ricchezze ai paesi stranieri. Lo stesso succedeva con il problema della corruzione. La società tedesca Siemens manteneva un dipartimento che si occupava della corruzione dei nostri politici, per poter piazzare meglio i suoi prodotti nel mercato greco. Di conseguenza, il popolo greco è stato vittima di questo duetto di ladri, Greci e Tedeschi, che si arricchivano sulle sue spalle.
È evidente che queste due ferite potevano essere evitate se i due partiti al potere (filo americani) non avessero raccolto tra le loro fila elementi corrotti, i quali, per coprire l'emorragia di ricchezze (prodotte dal lavoro del popolo greco) verso le casse di paesi stranieri, hanno sottoscritto prestiti esagerati, con il risultato che il debito pubblico è aumentato fino a 300 miliardi di euro, cioè il 130% del Pil.
Con questo sistema, le forze straniere di cui ho detto sopra, guadagnavano il doppio. Dalla vendita di armi e dei loro prodotti, prima; dai tassi d'interesse dei capitali prestati ai vari governi (e non al popolo), dopo. Perché come abbiamo visto, il popolo è la vittima principale in ambedue i casi. Un esempio solo vi convincerà. I tassi d'interesse di un prestito di 1 miliardo di dollari che contrasse Andreas Papandreou nel 1986 dalla Francia, sono diventati 54 miliardi di euro e sono stati finalmente saldati nel 2010!
Il Sig. Juncker ha dichiarato un anno fa, che aveva notato questa grande emorragia di denaro dalla Grecia a causa di spese enormi (ed obbligatorie) per l'acquisto di vari armamenti dalla Germania e dalla Francia. Aveva capito che i nostri venditori ci portavano direttamente ad una catastrofe sicura ma ha confessato pubblicamente che non ha reagito minimamente, per non colpire gli interessi dei suoi paesi amici!
Nel 2008 c'è stata la grande crisi economica in Europa. Era normale che ne risentisse anche l'economia greca. Il livello di vita, abbastanza alto (eravamo tra i 30 paesi più ricchi del mondo), rimase invariato. C'è stata, però, la crescita del debito pubblico. Ma il debito pubblico non porta obbligatoriamente alla crisi economica. I debiti dei grandi paesi come gli USA e la Germania, si contano in tris miliardi di euro. Il problema era la crescita economica e la produzione. Per questo motivo furono contratti prestiti dalle grandi banche con tasso fino al 5%. In questa esatta posizione ci trovavamo nel 2009, fino a quando in novembre è diventato primo ministro Georges Papandreou. Per farvi capire cosa ne pensa oggi il popolo greco della sua politica catastrofica, bastano questi due numeri: alle elezioni del 2009 il partito socialista ha preso il 44% dei voti. Oggi le proiezioni lo portano al 6%.
Papandreou avrebbe potuto affrontare la crisi economica (che rispecchiava quella europea) con prestiti dalle banche straniere con il tasso abituale, cioè sotto il 5%. Se avesse fatto questo, non ci sarebbe stato alcun problema per il nostro paese. Anzi, sarebbe successo l'incontrario perché eravamo in una fase di crescita economica.
Papandreou, però, aveva iniziato il suo complotto contro il proprio popolo dall'estate del 2009, quando si è incontrato segretamente con il Sig. Strauss Kahn per portare la Grecia sotto l'ombrello del FMI (Fondo Monetario Internazionale). La notizia di questo incontro è stata resa pubblica direttamente dal Presidente del FMI.
Per passare sotto il controllo del FMI, bisognava stravolgere la situazione economica reale del nostro paese e permettere l'innalzamento dei tassi d'interesse sui prestiti. Questa operazione meschina è iniziata con l'aumento "falso" del debito interno, dal 9,2% al 15%. Per questa operazione criminale, il Pm Peponis, ha chiesto 20 giorni fa, il rinvio a giudizio per Papandreou e Papakostantinou (Ministro dell'economia). Ha seguito la campagna sistematica in Europa di Papandreou e del Ministro dell'economia che è durata 5 mesi, per convincere gli europei che la Grecia è un Titanic pronto per andare a fondo, che i greci sono corrotti, pigri e di conseguenza incapaci di affrontare i problemi del paese. Dopo ogni loro dichiarazione, i tassi d'interesse salivano, al punto di non poter ottenere alcun prestito e di conseguenza il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Centrale Europea hanno preso la forma dei nostri salvatori, mentre nella realtà era l'inizio della nostra morte.
Nel Maggio del 2010 è stato firmato da un solo Ministro il famoso primo accordo di salvataggio. Il diritto greco, in questi casi, esige, per un accordo così importante, il voto favorevole di almeno tre quinti del parlamento. Quel primo accordo è dunque illegale. La troika che oggi governa in Grecia, agisce in modo completamente illegale. Non solo per il diritto greco ma anche per quello europeo.
Dal quel momento fino ad oggi, se i gradini che portano alla nostra morte sono venti, siamo già scesi più della metà. Immaginate che con questo secondo accordo, per la nostra "salvezza",offriamo a questi signori la nostra integrità nazionale e i nostri beni pubblici. Cioè Porti, Aeroporti, Autostrade, Elettricità, Acqua, ricchezze minerali ecc. ecc. ecc. i nostri, inoltre, monumenti nazionali come l'Acropolis, Delfi, Olympia, Epidauro ecc. ecc. ecc.; perché con questi accordi abbiamo rinunciato ad eventuali ricorsi.
La produzione si è fermata, la disoccupazione è salita al 20%, hanno chiuso 80.000 negozi, migliaia di piccole fabbriche e centinaia di industrie. In totale hanno chiuso 432.000 imprese. Decine di migliaia di giovani laureati lasciano il paese che ogni giorno si immerge in un buio medioevale. Migliaia di cittadini ex benestanti, cercano nei cassonetti della spazzatura e dormono per strada. Intanto si dice che siamo vivi grazie alla generosità dei nostri "salvatori", dell'Europa, delle banche e del Fondo Monetario Internazionale. In realtà, ogni pacchetto di decine di miliardi di aiuti destinato alla Grecia torna per intero indietro sotto forma di nuovi incredibili tassi d'interesse.
E siccome c'è bisogno di continuare a far funzionale lo stato, gli ospedali, le scuole ecc., la troika carica di extra tasse (assolutamente nuove) gli strati più deboli della società e li porta direttamente alla fame. Un'analoga situazione di fame generalizzata l'avemmo all'inizio dell'occupazione nazista nel 1941, con 300.000 morti in 6 mesi. Adesso rivediamo la stessa situazione. Se si pensa che l'occupazione nazista ci è costata 1 milione di morti e la distruzione totale del nostro paese, com'è possibile per noi greci accettare le minacce della sig.ra Merkel e l'intenzione dei tedeschi di installare un nuovo gaulaighter... e questa volta con la cravatta...
E per dimostrare quant'è ricca la Grecia e quanto lavoratori sono i greci, che sono coscienti del Obbligo di Libertà e dell'amore verso la propria patria, c'è l'esempio di come si reagì all'occupazione nazista dal 1941 all'Ottobre del 1944. Quando le SS e la fame uccidevano 1 milione di persone e la Vermacht distruggeva sistematicamente il paese, derubando la produzione agricola e l'oro dalle banche greche, i greci hanno fondato il movimento di solidarietà nazionale che ha sfamato la popolazione ed hanno creato un esercito di 100.000 partigiani che ha costretto i tedeschi ad essere presenti in modo continuo con 200.000 soldati. Contemporaneamente, i greci, grazie al proprio lavoro, sono riusciti non solo a sopravvivere ma a sviluppare, sotto condizioni di occupazione, l'arte neo greca, soprattutto la letteratura e la musica.
La Grecia scelse la via del sacrificio per la libertà e la sopravvivenza. Anche allora ci colpirono senza ragione e noi rispondemmo con la Solidarietà e la Resistenza, e siamo riusciti a vincere. La stessa cosa che dobbiamo fare anche adesso con la certezza che il vincitore finale sarà il popolo greco. Questo messaggio mando alla Sig.ra Merkel ed al Sig. Schäuble, dichiarando che rimango sempre amico del Popolo Tedesco ed ammiratore del suo grande contributo alla Scienza, la Filosofia, l'Arte e soprattutto alla Musica! E forse, la miglior dimostrazione di questo è che tutto il mio lavoro musicale a livello mondiale, l'ho affidato a 2 grandi editori tedeschi "Schott" e "Breitkopf" con cui ho un'ottima collaborazione.
Minacciano di mandarci via dall'Europa. Ma se l'Europa non ci vuole 1 volta, noi, questa Europa di Merkel e Sarkozy, non la vogliamo 10 volte.
Oggi è domenica 12 Febbraio. Mi sto preparando per prendere parte con Manolis Glezos, l'eroe che ha tirato giù la svastica dall'Acropolis, dando così il segnale per l'inizio non solo della resistenza greca ma di quella europea contro Hitler. Le strade e le nostre piazze si riempiranno di centinaia di migliaia di cittadini che esprimeranno la propria rabbia contro il governo e la troika. Ho sentito ieri il nostro Primo ministro – banchiere, rivolgendosi al popolo greco, dire che "siamo arrivati all'ora zero". Chi, però, ci ha portati all'ora ZERO in due anni? Le stesse persone che invece di trovarsi in prigione, ricattano i parlamentari per firmare il nuovo accordo, peggio del primo, che sarà applicato dalle stesse persone con gli stessi metodi che ci hanno portato all'ora ZERO! Perché? Perché questo ordina l'FMI e l'Eurogroup, ricattandoci che se non obbediremo ci sarà il fallimento...
Stiamo assistendo al teatro della paranoia. Tutti questi signori, che in sostanza ci odiano (greci e stranieri) e che sono gli unici responsabili della situazione drammatica alla quale hanno portato il paese, minacciano, ricattano, ordinano con l'unico scopo di continuare la loro opera distruttiva, cioè di portarci sotto l'ora ZERO, fino alla nostra sparizione definitiva.
Siamo sopravvissuti nei secoli, in condizioni molto difficili ed è certo che se ci porteranno con la forza, con la violenza, al penultimo gradino prima della nostra morte, i Greci, non solo sopravvivranno ma rinasceranno. In questo momento presto tutte le mie forze all'unione dinamica del popolo greco. Sto cercando di convincerlo che la Troika e l'FMI non sono una strada senso unico. Che esistono anche altre soluzioni. Guardare anche verso la Russia per una collaborazione economica, per lo sfruttamento delle nostre ricchezze minerarie, con condizioni diverse, a favore dei nostri interessi.
Per quanto riguarda l'Europa, propongo di interrompere l'acquisto di armamenti dalla Germania e dalla Francia. E dobbiamo fare tutto il possibile per prendere i nostri soldi, che la Germania ancora non ha saldato dal periodo della guerra. Tale somma ad oggi è quasi 500 miliardi di euro!!!
L'unica forza che può realizzare questi cambiamenti rivoluzionari è il popolo greco, unito in un enorme Fronte di Resistenza e Solidarietà, per mandare via la troika (FMI e Banche) dal paese. Nel frattempo devono essere considerati nulli tutti gli accordi illegali (prestiti, tassi d'interesse, tasse, svendita del paese ecc.). naturalmente, i loro collaboratori greci, che sono già condannati nella coscienza popolare come traditori, devono essere puniti.
Per l'Unione di tutto il Popolo stò dedicando tutte le mie energie e credo che alla fine ce la faremo. Ho fatto la guerra con le armi in mano contro l'occupazione nazista. Ho conosciuto i sotterranei della Gestapo. Sono stato condannato a morte dai Tedeschi e sono vivo per miracolo. Nel 1967 ho fondato il PAM, la prima organizzazione di resistenza contro i colonnelli. Ho agito nell'illegalità contro la dittatura. Sono stato arrestato ed imprigionato nel "mattatoio" della dittatura. Alla fine sono sopravvissuto e sono ancora qui.
Oggi ho 87 anni ed è molto probabile che non riuscirò a vedere la salvezza della mia amata patria. Ma morirò con la mia coscienza tranquilla, perché continuo a fare le mie battaglie per gli ideali della Libertà e del Diritto fino alla fine.
Mikis Theodorakis*
Fonte: www.megachip.info
Link: http://www.megachip.info/tematiche/democrazia-nella-comunicazione/7756-lettera-aperta-di-mikis-theodorakis.html
19.02.2012
* Mikis Theodorakis è un compositore greco, famoso anche per il suo impegno nella vita politica del suo paese.
Durante la dittatura militare dei colonnelli (1967-1974) viene imprigionato e torturato, mentre la sua musica viene proibita. Scrive in quel periodo, canzoni tratte da poesie del patriota greco Alexandros Panagulis.
Punto di riferimento per l'opinione pubblica di sinistra, al ritorno della democrazia in Grecia, quando il governo socialista guidato da Andreas Papandreou si trova al centro di alcuni scandali di corruzione, Theodorakis per qualche tempo si schiera con il centro-destra, riconciliandosi con la sinistra soltanto dopo l'uscita di scena di Papandreu (Wikipedia).
Lettera scritta il 12 febbraio, poco prima che anche lui subisse la reazione da parte delle forze di polizia schierate in difesa di un parlamento pronto a varare norme penalizzanti per l'economia greca e per i cittadini, specie per le fasce più deboli.
Esiste un complotto internazionale che ha l'obiettivo di cancellare il mio paese. E' iniziato nel 1975...
opponendosi alla civiltà neo-greca, è continuato con la distorsione sistematica della nostra storia contemporanea e della nostra identità culturale e adesso sta cercando di cancellarci anche materialmente con la mancanza di lavoro, la fame e la miseria. Se il popolo greco non prende la situazione in mano per ostacolarlo, il pericolo della sparizione della Grecia è reale. Io lo colloco entro i prossimi 10 anni.
Di noi, resterà solo la memoria della nostra civiltà e delle nostre battaglie per la libertà.
Fino al 2009 il problema economico non era grave. Le grandi ferite della nostra economia erano la spesa esagerata per la difesa del paese e la corruzione di una parte dei politici e dei giornalisti. Per queste due ferite, però, erano corresponsabili anche dei paesi stranieri. Come la Germania, la Francia, il Regno Unito e gli Stati Uniti che guadagnavano miliardi di euro da noi con la vendita annuale di materiale bellico. Questa emorragia continua ci metteva in ginocchio e non ci permetteva di crescere mentre offriva grandi ricchezze ai paesi stranieri. Lo stesso succedeva con il problema della corruzione. La società tedesca Siemens manteneva un dipartimento che si occupava della corruzione dei nostri politici, per poter piazzare meglio i suoi prodotti nel mercato greco. Di conseguenza, il popolo greco è stato vittima di questo duetto di ladri, Greci e Tedeschi, che si arricchivano sulle sue spalle.
È evidente che queste due ferite potevano essere evitate se i due partiti al potere (filo americani) non avessero raccolto tra le loro fila elementi corrotti, i quali, per coprire l'emorragia di ricchezze (prodotte dal lavoro del popolo greco) verso le casse di paesi stranieri, hanno sottoscritto prestiti esagerati, con il risultato che il debito pubblico è aumentato fino a 300 miliardi di euro, cioè il 130% del Pil.
Con questo sistema, le forze straniere di cui ho detto sopra, guadagnavano il doppio. Dalla vendita di armi e dei loro prodotti, prima; dai tassi d'interesse dei capitali prestati ai vari governi (e non al popolo), dopo. Perché come abbiamo visto, il popolo è la vittima principale in ambedue i casi. Un esempio solo vi convincerà. I tassi d'interesse di un prestito di 1 miliardo di dollari che contrasse Andreas Papandreou nel 1986 dalla Francia, sono diventati 54 miliardi di euro e sono stati finalmente saldati nel 2010!
Il Sig. Juncker ha dichiarato un anno fa, che aveva notato questa grande emorragia di denaro dalla Grecia a causa di spese enormi (ed obbligatorie) per l'acquisto di vari armamenti dalla Germania e dalla Francia. Aveva capito che i nostri venditori ci portavano direttamente ad una catastrofe sicura ma ha confessato pubblicamente che non ha reagito minimamente, per non colpire gli interessi dei suoi paesi amici!
Nel 2008 c'è stata la grande crisi economica in Europa. Era normale che ne risentisse anche l'economia greca. Il livello di vita, abbastanza alto (eravamo tra i 30 paesi più ricchi del mondo), rimase invariato. C'è stata, però, la crescita del debito pubblico. Ma il debito pubblico non porta obbligatoriamente alla crisi economica. I debiti dei grandi paesi come gli USA e la Germania, si contano in tris miliardi di euro. Il problema era la crescita economica e la produzione. Per questo motivo furono contratti prestiti dalle grandi banche con tasso fino al 5%. In questa esatta posizione ci trovavamo nel 2009, fino a quando in novembre è diventato primo ministro Georges Papandreou. Per farvi capire cosa ne pensa oggi il popolo greco della sua politica catastrofica, bastano questi due numeri: alle elezioni del 2009 il partito socialista ha preso il 44% dei voti. Oggi le proiezioni lo portano al 6%.
Papandreou avrebbe potuto affrontare la crisi economica (che rispecchiava quella europea) con prestiti dalle banche straniere con il tasso abituale, cioè sotto il 5%. Se avesse fatto questo, non ci sarebbe stato alcun problema per il nostro paese. Anzi, sarebbe successo l'incontrario perché eravamo in una fase di crescita economica.
Papandreou, però, aveva iniziato il suo complotto contro il proprio popolo dall'estate del 2009, quando si è incontrato segretamente con il Sig. Strauss Kahn per portare la Grecia sotto l'ombrello del FMI (Fondo Monetario Internazionale). La notizia di questo incontro è stata resa pubblica direttamente dal Presidente del FMI.
Per passare sotto il controllo del FMI, bisognava stravolgere la situazione economica reale del nostro paese e permettere l'innalzamento dei tassi d'interesse sui prestiti. Questa operazione meschina è iniziata con l'aumento "falso" del debito interno, dal 9,2% al 15%. Per questa operazione criminale, il Pm Peponis, ha chiesto 20 giorni fa, il rinvio a giudizio per Papandreou e Papakostantinou (Ministro dell'economia). Ha seguito la campagna sistematica in Europa di Papandreou e del Ministro dell'economia che è durata 5 mesi, per convincere gli europei che la Grecia è un Titanic pronto per andare a fondo, che i greci sono corrotti, pigri e di conseguenza incapaci di affrontare i problemi del paese. Dopo ogni loro dichiarazione, i tassi d'interesse salivano, al punto di non poter ottenere alcun prestito e di conseguenza il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Centrale Europea hanno preso la forma dei nostri salvatori, mentre nella realtà era l'inizio della nostra morte.
Nel Maggio del 2010 è stato firmato da un solo Ministro il famoso primo accordo di salvataggio. Il diritto greco, in questi casi, esige, per un accordo così importante, il voto favorevole di almeno tre quinti del parlamento. Quel primo accordo è dunque illegale. La troika che oggi governa in Grecia, agisce in modo completamente illegale. Non solo per il diritto greco ma anche per quello europeo.
Dal quel momento fino ad oggi, se i gradini che portano alla nostra morte sono venti, siamo già scesi più della metà. Immaginate che con questo secondo accordo, per la nostra "salvezza",offriamo a questi signori la nostra integrità nazionale e i nostri beni pubblici. Cioè Porti, Aeroporti, Autostrade, Elettricità, Acqua, ricchezze minerali ecc. ecc. ecc. i nostri, inoltre, monumenti nazionali come l'Acropolis, Delfi, Olympia, Epidauro ecc. ecc. ecc.; perché con questi accordi abbiamo rinunciato ad eventuali ricorsi.
La produzione si è fermata, la disoccupazione è salita al 20%, hanno chiuso 80.000 negozi, migliaia di piccole fabbriche e centinaia di industrie. In totale hanno chiuso 432.000 imprese. Decine di migliaia di giovani laureati lasciano il paese che ogni giorno si immerge in un buio medioevale. Migliaia di cittadini ex benestanti, cercano nei cassonetti della spazzatura e dormono per strada. Intanto si dice che siamo vivi grazie alla generosità dei nostri "salvatori", dell'Europa, delle banche e del Fondo Monetario Internazionale. In realtà, ogni pacchetto di decine di miliardi di aiuti destinato alla Grecia torna per intero indietro sotto forma di nuovi incredibili tassi d'interesse.
E siccome c'è bisogno di continuare a far funzionale lo stato, gli ospedali, le scuole ecc., la troika carica di extra tasse (assolutamente nuove) gli strati più deboli della società e li porta direttamente alla fame. Un'analoga situazione di fame generalizzata l'avemmo all'inizio dell'occupazione nazista nel 1941, con 300.000 morti in 6 mesi. Adesso rivediamo la stessa situazione. Se si pensa che l'occupazione nazista ci è costata 1 milione di morti e la distruzione totale del nostro paese, com'è possibile per noi greci accettare le minacce della sig.ra Merkel e l'intenzione dei tedeschi di installare un nuovo gaulaighter... e questa volta con la cravatta...
E per dimostrare quant'è ricca la Grecia e quanto lavoratori sono i greci, che sono coscienti del Obbligo di Libertà e dell'amore verso la propria patria, c'è l'esempio di come si reagì all'occupazione nazista dal 1941 all'Ottobre del 1944. Quando le SS e la fame uccidevano 1 milione di persone e la Vermacht distruggeva sistematicamente il paese, derubando la produzione agricola e l'oro dalle banche greche, i greci hanno fondato il movimento di solidarietà nazionale che ha sfamato la popolazione ed hanno creato un esercito di 100.000 partigiani che ha costretto i tedeschi ad essere presenti in modo continuo con 200.000 soldati. Contemporaneamente, i greci, grazie al proprio lavoro, sono riusciti non solo a sopravvivere ma a sviluppare, sotto condizioni di occupazione, l'arte neo greca, soprattutto la letteratura e la musica.
La Grecia scelse la via del sacrificio per la libertà e la sopravvivenza. Anche allora ci colpirono senza ragione e noi rispondemmo con la Solidarietà e la Resistenza, e siamo riusciti a vincere. La stessa cosa che dobbiamo fare anche adesso con la certezza che il vincitore finale sarà il popolo greco. Questo messaggio mando alla Sig.ra Merkel ed al Sig. Schäuble, dichiarando che rimango sempre amico del Popolo Tedesco ed ammiratore del suo grande contributo alla Scienza, la Filosofia, l'Arte e soprattutto alla Musica! E forse, la miglior dimostrazione di questo è che tutto il mio lavoro musicale a livello mondiale, l'ho affidato a 2 grandi editori tedeschi "Schott" e "Breitkopf" con cui ho un'ottima collaborazione.
Minacciano di mandarci via dall'Europa. Ma se l'Europa non ci vuole 1 volta, noi, questa Europa di Merkel e Sarkozy, non la vogliamo 10 volte.
Oggi è domenica 12 Febbraio. Mi sto preparando per prendere parte con Manolis Glezos, l'eroe che ha tirato giù la svastica dall'Acropolis, dando così il segnale per l'inizio non solo della resistenza greca ma di quella europea contro Hitler. Le strade e le nostre piazze si riempiranno di centinaia di migliaia di cittadini che esprimeranno la propria rabbia contro il governo e la troika. Ho sentito ieri il nostro Primo ministro – banchiere, rivolgendosi al popolo greco, dire che "siamo arrivati all'ora zero". Chi, però, ci ha portati all'ora ZERO in due anni? Le stesse persone che invece di trovarsi in prigione, ricattano i parlamentari per firmare il nuovo accordo, peggio del primo, che sarà applicato dalle stesse persone con gli stessi metodi che ci hanno portato all'ora ZERO! Perché? Perché questo ordina l'FMI e l'Eurogroup, ricattandoci che se non obbediremo ci sarà il fallimento...
Stiamo assistendo al teatro della paranoia. Tutti questi signori, che in sostanza ci odiano (greci e stranieri) e che sono gli unici responsabili della situazione drammatica alla quale hanno portato il paese, minacciano, ricattano, ordinano con l'unico scopo di continuare la loro opera distruttiva, cioè di portarci sotto l'ora ZERO, fino alla nostra sparizione definitiva.
Siamo sopravvissuti nei secoli, in condizioni molto difficili ed è certo che se ci porteranno con la forza, con la violenza, al penultimo gradino prima della nostra morte, i Greci, non solo sopravvivranno ma rinasceranno. In questo momento presto tutte le mie forze all'unione dinamica del popolo greco. Sto cercando di convincerlo che la Troika e l'FMI non sono una strada senso unico. Che esistono anche altre soluzioni. Guardare anche verso la Russia per una collaborazione economica, per lo sfruttamento delle nostre ricchezze minerarie, con condizioni diverse, a favore dei nostri interessi.
Per quanto riguarda l'Europa, propongo di interrompere l'acquisto di armamenti dalla Germania e dalla Francia. E dobbiamo fare tutto il possibile per prendere i nostri soldi, che la Germania ancora non ha saldato dal periodo della guerra. Tale somma ad oggi è quasi 500 miliardi di euro!!!
L'unica forza che può realizzare questi cambiamenti rivoluzionari è il popolo greco, unito in un enorme Fronte di Resistenza e Solidarietà, per mandare via la troika (FMI e Banche) dal paese. Nel frattempo devono essere considerati nulli tutti gli accordi illegali (prestiti, tassi d'interesse, tasse, svendita del paese ecc.). naturalmente, i loro collaboratori greci, che sono già condannati nella coscienza popolare come traditori, devono essere puniti.
Per l'Unione di tutto il Popolo stò dedicando tutte le mie energie e credo che alla fine ce la faremo. Ho fatto la guerra con le armi in mano contro l'occupazione nazista. Ho conosciuto i sotterranei della Gestapo. Sono stato condannato a morte dai Tedeschi e sono vivo per miracolo. Nel 1967 ho fondato il PAM, la prima organizzazione di resistenza contro i colonnelli. Ho agito nell'illegalità contro la dittatura. Sono stato arrestato ed imprigionato nel "mattatoio" della dittatura. Alla fine sono sopravvissuto e sono ancora qui.
Oggi ho 87 anni ed è molto probabile che non riuscirò a vedere la salvezza della mia amata patria. Ma morirò con la mia coscienza tranquilla, perché continuo a fare le mie battaglie per gli ideali della Libertà e del Diritto fino alla fine.
Mikis Theodorakis*
Fonte: www.megachip.info
Link: http://www.megachip.info/tematiche/democrazia-nella-comunicazione/7756-lettera-aperta-di-mikis-theodorakis.html
19.02.2012
* Mikis Theodorakis è un compositore greco, famoso anche per il suo impegno nella vita politica del suo paese.
Durante la dittatura militare dei colonnelli (1967-1974) viene imprigionato e torturato, mentre la sua musica viene proibita. Scrive in quel periodo, canzoni tratte da poesie del patriota greco Alexandros Panagulis.
Punto di riferimento per l'opinione pubblica di sinistra, al ritorno della democrazia in Grecia, quando il governo socialista guidato da Andreas Papandreou si trova al centro di alcuni scandali di corruzione, Theodorakis per qualche tempo si schiera con il centro-destra, riconciliandosi con la sinistra soltanto dopo l'uscita di scena di Papandreu (Wikipedia).
Lettera scritta il 12 febbraio, poco prima che anche lui subisse la reazione da parte delle forze di polizia schierate in difesa di un parlamento pronto a varare norme penalizzanti per l'economia greca e per i cittadini, specie per le fasce più deboli.
Cacciabombardieri F35 - CANCELLARLI TUTTI
F35 – CANCELLARLI TUTTI, IL PRC ADERISCE ALLA GIORNATA NAZIONALE DI MOBILITAZIONE del 25 febbraio
Il Partito della Rifondazione Comunista e la Federazione della Sinistra aderiscono convintamente all’iniziativa “cento piazze contro gli F35 “ promossa dalla Refe Disarmo per il 25 febbraio.
Gli F35 sono infatti incompatibili con il bilancio dello Stato ma anche con la nostra Costituzione. Sono strumenti di “lungo braccio” cioè atti a portare il nostro potenziale offensivo fuori dai confini nazionali. Sono strumenti di aggressione il cui programma non va solo ridotto di numero ma va cancellato per intero. “Il ministro Di Paola vuole risparmiare sugli stipendi per poter salvare il programma di riarmo del nostro Paese. Ci sembra uno scambio inaccettabile. Semmai vanno riconvertite parte delle forze armate smilitarizzandole e dedicandole alla protezione civile. Il Prc ritiene fondamentale affrontare il nodo della riconversione in produzioni civili della nostra industria bellica. Il ministro Di Paola agita infatti il rischio occupazionale quando parla delle irrinunciabilità di alcuni sistemi di arma compreso gli F35. Noi pensiamo che questo problema vada affrontato alla radice non soltanto tagliando le spese militari ma indirizzando queste spese verso la riconversione del settore. L’Alenia può produrre buoni aerei civili – da trasporto e antincendio per esempio – così come la Fincantieri invece che portaerei può produrre navi per trasporto merci per le autostrade del mare. Non basta risparmiare sulle spese militari, bisogna riconvertire il modello di sviluppo. Le spese risparmiate dalla riduzione delle spese militari non devono andare semplicemente al contenimento del debito pubblico ma al rilancio del tessuto produttivo del nostro Paese e in particolare alla lotta al precariato e ad un nuovo modello di sviluppo. Pace e lavoro sono un binomio inscindibile. Anche per questa ragione abbiamo presentato in comuni, province e regioni ordini del giorno e mozioni che, a partire dal taglio degli F35 e delle missioni di guerra, chiedono questo cambio di passo della politica italiana.
Il Prc invita le proprie strutture a raccordarsi con le altre forze del movimento pacifista che hanno indetto la giornata del 25 febbraio e dare tutto il supporto necessario alla riuscita della mobilitazione.
Informazioni e adesioni possono essere presi dalla pagina facebook https://www.facebook.com/events/248002671946856/ e da sito www.disarmo.org
Per il Dipartimento Pace e Movimenti
Alfio Nicotra
Il Partito della Rifondazione Comunista e la Federazione della Sinistra aderiscono convintamente all’iniziativa “cento piazze contro gli F35 “ promossa dalla Refe Disarmo per il 25 febbraio.
Gli F35 sono infatti incompatibili con il bilancio dello Stato ma anche con la nostra Costituzione. Sono strumenti di “lungo braccio” cioè atti a portare il nostro potenziale offensivo fuori dai confini nazionali. Sono strumenti di aggressione il cui programma non va solo ridotto di numero ma va cancellato per intero. “Il ministro Di Paola vuole risparmiare sugli stipendi per poter salvare il programma di riarmo del nostro Paese. Ci sembra uno scambio inaccettabile. Semmai vanno riconvertite parte delle forze armate smilitarizzandole e dedicandole alla protezione civile. Il Prc ritiene fondamentale affrontare il nodo della riconversione in produzioni civili della nostra industria bellica. Il ministro Di Paola agita infatti il rischio occupazionale quando parla delle irrinunciabilità di alcuni sistemi di arma compreso gli F35. Noi pensiamo che questo problema vada affrontato alla radice non soltanto tagliando le spese militari ma indirizzando queste spese verso la riconversione del settore. L’Alenia può produrre buoni aerei civili – da trasporto e antincendio per esempio – così come la Fincantieri invece che portaerei può produrre navi per trasporto merci per le autostrade del mare. Non basta risparmiare sulle spese militari, bisogna riconvertire il modello di sviluppo. Le spese risparmiate dalla riduzione delle spese militari non devono andare semplicemente al contenimento del debito pubblico ma al rilancio del tessuto produttivo del nostro Paese e in particolare alla lotta al precariato e ad un nuovo modello di sviluppo. Pace e lavoro sono un binomio inscindibile. Anche per questa ragione abbiamo presentato in comuni, province e regioni ordini del giorno e mozioni che, a partire dal taglio degli F35 e delle missioni di guerra, chiedono questo cambio di passo della politica italiana.
Il Prc invita le proprie strutture a raccordarsi con le altre forze del movimento pacifista che hanno indetto la giornata del 25 febbraio e dare tutto il supporto necessario alla riuscita della mobilitazione.
Informazioni e adesioni possono essere presi dalla pagina facebook https://www.facebook.com/events/248002671946856/ e da sito www.disarmo.org
Per il Dipartimento Pace e Movimenti
Alfio Nicotra
mercoledì 22 febbraio 2012
Monti e il colpo di stato monetario
Articolo pubblicato per il "Giornale internazione" realizzato dal "Mouvement jeunes communistes", il corrispondente francese dei Giovani Comunisti
"Stiamo assistendo al grande successo dell'Euro e qual è la manifestazione più concreta del grande successo dell'euro? La Grecia" (Mario Monti)
In Italia è in corso un colpo di stato monetario.
Oggi più che mai, questa dichiarazione di qualche mese fa del premier del Governo italiano, Mario Monti, mostra cinicamente la crudeltà del capitalismo, della politica dell'Unione Europea e del nuovo governo italiano impostoci dai mercati internazionali.
Non è la prima volta che la politica italiana è guidata da uomini allineati e collusi con il sistema e i mercati mondiali, in breve vado ad elencare alcuni rapporti tra la politica italiana e la Goldman Sachs, una delle più grandi e affermate banche d'affari del mondo.
Romano Prodi, da consulente Goldman Sachs a Presidente del Consiglio in Italia
Mario Draghi, da Vicepresidente Goldman Sachs a Governatore della Banca d'Italia e BCE
Mario Monti, dalla Commissione Europea sulla concorrenza alla Goldman Sachs; nominato poi Senatore a vita dal Presidente della Repubblica G. Napolitano
Massimo Tononi, dalla Goldman Sachs di Londra a sottosegretario all'Economia nel governo Prodi del 2006
Gianni Letta, membro dell'Advisory Board di Goldman Sachs è nominato sottosegretario alla Presidenza del Consiglio del governo Berlusconi 2008
Nei mesi scorsi il quotidiano economico "Milano Finanza" ha riportato che, Goldman Sachs è stato l'artefice principale della speculazione che ha portato all'aumento vertiginoso dello spread tra i Bund tedeschi ed i Btp italiani (2). L'8 novembre 2011, alla notizia delle imminenti dimissioni di Berlusconi, Goldman Sachs ha emesso un comunicato in cui ha affermato che le elezioni avrebbero rappresentato "lo scenario peggiore per i mercati". La Goldman Sachs, nel 2010, è stata anche incriminata dalla SEC per frode e truffa ai danni dei propri clienti. (1)
La Goldman Sachs e i mercati hanno creato le condizioni per sovvertire la sovranità dell'Italia. Uomini dell'alta finanza, in nome dei mercati, hanno deciso che in Italia, come in Grecia, non erano necessarie le elezioni, la sovranità popolare delle nazioni risulta essere assente.
La BCE sta ricoprendo un ruolo da co-cospiratore nell'organizzare colpi di stato silenziosi, dove governi eletti sono stati sostituiti con dei governi composti da banchieri e tecnici. La Banca Centrale Europea, indipendente da qualsiasi controllo democratico, da qualsiasi responsabilità nei confronti della gente comune, è uno strumento al servizio degli interessi della classe dei capitalisti e dei ricchi dei paesi dominanti dell'Unione Europea di cui gioca il ruolo di truppa d'assalto in questa crisi. Noi italiani e greci in questo momento siamo vittime di questo colpo di stato monetario.
Il governo Monti è espressione diretta del grande capitale italiano e internazionale. Per la prima volta nella storia della Repubblica Italiana, i mercati hanno commissariato il nostro paese, sintomo della violenza dell'UE e della crisi della classe politica italiana, che risulta incapace e servile.
Negli ultimi vent'anni della nostra storia abbiamo subito le politiche liberali e populiste che hanno contratto il mercato del lavoro e i nostri salari, introducendo e pian piano aumentando, flessibilità, precarietà e cancellazione dei diritti che hanno impoverito il popolo ed aumentato i profitti della classe padronale. Berlusconi, ma anche il centrosinistra di Prodi, hanno compiaciuto i mercati con le loro politiche, ma ora risultano meno credibili ed efficaci, per questo ora i mercati preferiscono gestire in prima persona il futuro dell'Italia. Senza alcun mandato democratico, oggi, dopo questo colpo di stato, l'Italia ha il governo nettamente più venduto all'ideologia neoliberale.
L'arrivo di Monti ha illuso parte della sinistra, ma non i comunisti, che in Italia, per una volta, hanno mostrato lucidità e si sono subito schierati all'opposizione di questo nuovo governo imposto dalla Banca Centrale Europea, per far eseguire i 39 punti dettati dalla lettera di Draghi-Trichet.
Siamo passati da un governo di destra, Berlusconi, ad un altro governo di destra, Monti. Quest'ultimo non eletto dal popolo sovrano. Siamo in ostaggio, come la Grecia, della troika (Unione Europea, Banca Centrale Europea, Fondo Monetario Internazionale), una nazione ostaggio dei poteri finanziari mondiali che risultano incapaci di risollevare l'Italia.
L'Italia è in recessione, il tasso di disoccupazione giovanile ha superato il 30%. E' un dato in sensibile aumento che sprigiona la disillusione verso questa società. I salari restano bassi e la precarietà sta distruggendo il futuro della nostra nazione. La conseguenza è la disperazione di un intero popolo che non di rado porta al suicidio. I suicidi in Italia, compiuti da persone espulse dal mercato del lavoro, sono aumentati del 37,3%.
Per i giovani entrare nel mercato del lavoro è un' impresa ardua, contratti precari per stipendi da fame. La disperazione greca è vicina e il popolo fatica a sopravvivere, fatica persino a mangiare. Calano i consumi ed aumentano i furti nei supermercati Che registrano quest'anno una crescita record del quasi 8%, che supera il valore di 3 miliardi, il piu’ elevato da sempre.
Gli stipendi italiani sono fermi da 10 anni e la manovra del governo Monti ha una similitudine con la ricetta greca. I nostri salari sono inferiori di mille euro circa rispetto alla media Ocse, e di circa 4000 rispetto alla media Ue a 15 (3). E con gli stipendi, si riducono anche le prospettive di futuro. Aggiungiamo una disoccupazione giovanile al 30% e una precarietà dilagante e abbiamo un mix micidiale.
Riducendo salari, pensioni, servizi sociali e la quantità di denaro a disposizione delle famiglie, la recessione è inevitabile e porterà la perdita ulteriore di migliaia di posti di lavoro.
Il nuovo governo sta attuando una lotta di classe, della borghesia contro il proletariato, di una violenza inaudita, stanno annientando i nostri diritti conquistati con anni di lotte, proprio in questi giorni stanno regolamentando il diritto di licenziamento senza giusta causa e il posto fisso viene definito "monotono" dal nostro Premier. Il tentativo, neanche tanto velato, è quello di provocare una guerra generazionale, con i figli contro i padri.
Ci ritroviamo un governo arrogante, che chiede sacrifici alle fasce più deboli della popolazione, che tifa per la libertà di licenziamento e invoca il precariato a vita. Per risolvere la crisi della banche hanno ulteriormente aumentano le tasse, tagliato gli investimenti, cancellato i diritti ed aumentato l'età pensionaible. La manovra del governo Monti è una stangata in totale continuità con le politiche di Berlusconi. Graverà sulla media delle famiglie per 635 euro. Sommato alle manovre di Berlusconi di luglio e agosto, l’impatto su ogni famiglia raggiungerà nel quadriennio 2011-2014, i 6.400 euro. Un governo che ha un solo programma: tagliare miliardi ai servizi sociali, alle politiche sul lavoro. Tagli a regioni e province, che si trasformano in tasse comunali più alte, riduzione dei servizi e licenziamenti continui. Un aumento considerevole del costo della vita che sta piegando, ancor di più, il paese.
La Grecia si sta avvicinando, la Grecia è vicina. L'Italia, come tutti i paesi del PIIGS (Portogallo, Italia, Irlanda, Grecia e Spagna) rischia il default, spinta dall'UE che svende la sovranità per spingere i nostri stati sovrani in balia dei mercati internazionali, obbligandoci ad aumentare privatizzazioni e liberalizzazioni, anche delle aziende di interesse strategico. Un governo lacrime e sangue che non si preoccupa di assicurare un reddito sociale, una prospettiva ed una pensione per sopravvivere dopo decenni di duro e sottopagato lavoro. I lavoratori precari e i giovani sono mandati al macello, condannati alla miseria e all'elemosina familiare per sopravvivere.
In definitiva, questo governo colpisce sempre gli stessi e salvaguarda sempre gli stessi. Colpisce le lavoratrici e i lavoratori, i pensionati, i giovani. Salvaguarda i grandi patrimoni, i grandi speculatori, i grandi evasori. Rifondazione Comunista ha fatto una grande battaglia nei territori per chiedere una grande patrimoniale per tassare maggiormente i più ricchi d'Italia, ma per il governo è più facile tassare le fasce meno tutelate che i ricchi e le lobby e tutto questo sta contribuendo a mantenere paralizzato il paese, che nell'ultimo trimeste è risultato nuovamente in recessione.
Abbiamo chiesto fortemente la riduzione delle spese militari, ma questo governo ha preferito spendere quasi 20miliardi di euro per l'acquisto di 133 cacciabombardieri.
E' chiaramente un governo di destra, europeista, imperialista e liberale, anticostituzionale e nemico della democrazia. Stiamo invocando gli scioperi generali, ma i principali sindacati italiani sono complici di questa attuale situazione.
Non dobbiamo sorprenderci che l'Europa abbia bisogno di crisi, di gravi crisi, per fare passi avanti. I passi avanti dell'Europa sono per definizione cessioni di parti della sovranità nazionale ad un livello comunitario (M.Monti)
La crisi è di sistema e per questo si deve costruire una vera alternativa con prospettiva socialista. Come già in Grecia, l'UE vorrebbe far pagar il debito (illegale) a delle economie in recessione, causando di fatto un aggravamento dell'attuale situazione sociale. L'opposizione comunista tenterà di costruire un alternativa economica, sociale e politica al programma della Bce e del capitalismo internazionale. Sarà dura, ma si riparte dal no a questo governo Monti.
Contro la dittatura dei mercati finanziari che sta distruggendo democrazia e stato sociale, ci vorranno delle rivolte nazionali che riporterànno la sovranità e la giustizia sociale nelle nostre amate patrie.
Andrea 'Perno' Salutari
Fonte: Patria del ribelle
"Stiamo assistendo al grande successo dell'Euro e qual è la manifestazione più concreta del grande successo dell'euro? La Grecia" (Mario Monti)
In Italia è in corso un colpo di stato monetario.
Oggi più che mai, questa dichiarazione di qualche mese fa del premier del Governo italiano, Mario Monti, mostra cinicamente la crudeltà del capitalismo, della politica dell'Unione Europea e del nuovo governo italiano impostoci dai mercati internazionali.
Non è la prima volta che la politica italiana è guidata da uomini allineati e collusi con il sistema e i mercati mondiali, in breve vado ad elencare alcuni rapporti tra la politica italiana e la Goldman Sachs, una delle più grandi e affermate banche d'affari del mondo.
Romano Prodi, da consulente Goldman Sachs a Presidente del Consiglio in Italia
Mario Draghi, da Vicepresidente Goldman Sachs a Governatore della Banca d'Italia e BCE
Mario Monti, dalla Commissione Europea sulla concorrenza alla Goldman Sachs; nominato poi Senatore a vita dal Presidente della Repubblica G. Napolitano
Massimo Tononi, dalla Goldman Sachs di Londra a sottosegretario all'Economia nel governo Prodi del 2006
Gianni Letta, membro dell'Advisory Board di Goldman Sachs è nominato sottosegretario alla Presidenza del Consiglio del governo Berlusconi 2008
Nei mesi scorsi il quotidiano economico "Milano Finanza" ha riportato che, Goldman Sachs è stato l'artefice principale della speculazione che ha portato all'aumento vertiginoso dello spread tra i Bund tedeschi ed i Btp italiani (2). L'8 novembre 2011, alla notizia delle imminenti dimissioni di Berlusconi, Goldman Sachs ha emesso un comunicato in cui ha affermato che le elezioni avrebbero rappresentato "lo scenario peggiore per i mercati". La Goldman Sachs, nel 2010, è stata anche incriminata dalla SEC per frode e truffa ai danni dei propri clienti. (1)
La Goldman Sachs e i mercati hanno creato le condizioni per sovvertire la sovranità dell'Italia. Uomini dell'alta finanza, in nome dei mercati, hanno deciso che in Italia, come in Grecia, non erano necessarie le elezioni, la sovranità popolare delle nazioni risulta essere assente.
La BCE sta ricoprendo un ruolo da co-cospiratore nell'organizzare colpi di stato silenziosi, dove governi eletti sono stati sostituiti con dei governi composti da banchieri e tecnici. La Banca Centrale Europea, indipendente da qualsiasi controllo democratico, da qualsiasi responsabilità nei confronti della gente comune, è uno strumento al servizio degli interessi della classe dei capitalisti e dei ricchi dei paesi dominanti dell'Unione Europea di cui gioca il ruolo di truppa d'assalto in questa crisi. Noi italiani e greci in questo momento siamo vittime di questo colpo di stato monetario.
Il governo Monti è espressione diretta del grande capitale italiano e internazionale. Per la prima volta nella storia della Repubblica Italiana, i mercati hanno commissariato il nostro paese, sintomo della violenza dell'UE e della crisi della classe politica italiana, che risulta incapace e servile.
Negli ultimi vent'anni della nostra storia abbiamo subito le politiche liberali e populiste che hanno contratto il mercato del lavoro e i nostri salari, introducendo e pian piano aumentando, flessibilità, precarietà e cancellazione dei diritti che hanno impoverito il popolo ed aumentato i profitti della classe padronale. Berlusconi, ma anche il centrosinistra di Prodi, hanno compiaciuto i mercati con le loro politiche, ma ora risultano meno credibili ed efficaci, per questo ora i mercati preferiscono gestire in prima persona il futuro dell'Italia. Senza alcun mandato democratico, oggi, dopo questo colpo di stato, l'Italia ha il governo nettamente più venduto all'ideologia neoliberale.
L'arrivo di Monti ha illuso parte della sinistra, ma non i comunisti, che in Italia, per una volta, hanno mostrato lucidità e si sono subito schierati all'opposizione di questo nuovo governo imposto dalla Banca Centrale Europea, per far eseguire i 39 punti dettati dalla lettera di Draghi-Trichet.
Siamo passati da un governo di destra, Berlusconi, ad un altro governo di destra, Monti. Quest'ultimo non eletto dal popolo sovrano. Siamo in ostaggio, come la Grecia, della troika (Unione Europea, Banca Centrale Europea, Fondo Monetario Internazionale), una nazione ostaggio dei poteri finanziari mondiali che risultano incapaci di risollevare l'Italia.
L'Italia è in recessione, il tasso di disoccupazione giovanile ha superato il 30%. E' un dato in sensibile aumento che sprigiona la disillusione verso questa società. I salari restano bassi e la precarietà sta distruggendo il futuro della nostra nazione. La conseguenza è la disperazione di un intero popolo che non di rado porta al suicidio. I suicidi in Italia, compiuti da persone espulse dal mercato del lavoro, sono aumentati del 37,3%.
Per i giovani entrare nel mercato del lavoro è un' impresa ardua, contratti precari per stipendi da fame. La disperazione greca è vicina e il popolo fatica a sopravvivere, fatica persino a mangiare. Calano i consumi ed aumentano i furti nei supermercati Che registrano quest'anno una crescita record del quasi 8%, che supera il valore di 3 miliardi, il piu’ elevato da sempre.
Gli stipendi italiani sono fermi da 10 anni e la manovra del governo Monti ha una similitudine con la ricetta greca. I nostri salari sono inferiori di mille euro circa rispetto alla media Ocse, e di circa 4000 rispetto alla media Ue a 15 (3). E con gli stipendi, si riducono anche le prospettive di futuro. Aggiungiamo una disoccupazione giovanile al 30% e una precarietà dilagante e abbiamo un mix micidiale.
Riducendo salari, pensioni, servizi sociali e la quantità di denaro a disposizione delle famiglie, la recessione è inevitabile e porterà la perdita ulteriore di migliaia di posti di lavoro.
Il nuovo governo sta attuando una lotta di classe, della borghesia contro il proletariato, di una violenza inaudita, stanno annientando i nostri diritti conquistati con anni di lotte, proprio in questi giorni stanno regolamentando il diritto di licenziamento senza giusta causa e il posto fisso viene definito "monotono" dal nostro Premier. Il tentativo, neanche tanto velato, è quello di provocare una guerra generazionale, con i figli contro i padri.
Ci ritroviamo un governo arrogante, che chiede sacrifici alle fasce più deboli della popolazione, che tifa per la libertà di licenziamento e invoca il precariato a vita. Per risolvere la crisi della banche hanno ulteriormente aumentano le tasse, tagliato gli investimenti, cancellato i diritti ed aumentato l'età pensionaible. La manovra del governo Monti è una stangata in totale continuità con le politiche di Berlusconi. Graverà sulla media delle famiglie per 635 euro. Sommato alle manovre di Berlusconi di luglio e agosto, l’impatto su ogni famiglia raggiungerà nel quadriennio 2011-2014, i 6.400 euro. Un governo che ha un solo programma: tagliare miliardi ai servizi sociali, alle politiche sul lavoro. Tagli a regioni e province, che si trasformano in tasse comunali più alte, riduzione dei servizi e licenziamenti continui. Un aumento considerevole del costo della vita che sta piegando, ancor di più, il paese.
La Grecia si sta avvicinando, la Grecia è vicina. L'Italia, come tutti i paesi del PIIGS (Portogallo, Italia, Irlanda, Grecia e Spagna) rischia il default, spinta dall'UE che svende la sovranità per spingere i nostri stati sovrani in balia dei mercati internazionali, obbligandoci ad aumentare privatizzazioni e liberalizzazioni, anche delle aziende di interesse strategico. Un governo lacrime e sangue che non si preoccupa di assicurare un reddito sociale, una prospettiva ed una pensione per sopravvivere dopo decenni di duro e sottopagato lavoro. I lavoratori precari e i giovani sono mandati al macello, condannati alla miseria e all'elemosina familiare per sopravvivere.
In definitiva, questo governo colpisce sempre gli stessi e salvaguarda sempre gli stessi. Colpisce le lavoratrici e i lavoratori, i pensionati, i giovani. Salvaguarda i grandi patrimoni, i grandi speculatori, i grandi evasori. Rifondazione Comunista ha fatto una grande battaglia nei territori per chiedere una grande patrimoniale per tassare maggiormente i più ricchi d'Italia, ma per il governo è più facile tassare le fasce meno tutelate che i ricchi e le lobby e tutto questo sta contribuendo a mantenere paralizzato il paese, che nell'ultimo trimeste è risultato nuovamente in recessione.
Abbiamo chiesto fortemente la riduzione delle spese militari, ma questo governo ha preferito spendere quasi 20miliardi di euro per l'acquisto di 133 cacciabombardieri.
E' chiaramente un governo di destra, europeista, imperialista e liberale, anticostituzionale e nemico della democrazia. Stiamo invocando gli scioperi generali, ma i principali sindacati italiani sono complici di questa attuale situazione.
Non dobbiamo sorprenderci che l'Europa abbia bisogno di crisi, di gravi crisi, per fare passi avanti. I passi avanti dell'Europa sono per definizione cessioni di parti della sovranità nazionale ad un livello comunitario (M.Monti)
La crisi è di sistema e per questo si deve costruire una vera alternativa con prospettiva socialista. Come già in Grecia, l'UE vorrebbe far pagar il debito (illegale) a delle economie in recessione, causando di fatto un aggravamento dell'attuale situazione sociale. L'opposizione comunista tenterà di costruire un alternativa economica, sociale e politica al programma della Bce e del capitalismo internazionale. Sarà dura, ma si riparte dal no a questo governo Monti.
Contro la dittatura dei mercati finanziari che sta distruggendo democrazia e stato sociale, ci vorranno delle rivolte nazionali che riporterànno la sovranità e la giustizia sociale nelle nostre amate patrie.
Andrea 'Perno' Salutari
Fonte: Patria del ribelle
Le mani della ‘ndrangheta sulla Val di Susa
- Mario Di Vito – eilmensile.it -
In Val di Susa c’è una guerra. Non quella tra i No Tave i sostentori dell’Alta velocità, ma uno scontro totale tra cosche della ‘ndrangheta. Dalla relazione 2011 della Direzione Nazionale Antimafia, emerge un quadro più che inquietante sull’andamento dei lavori per la costruzione della tratta Torino-Lione.
“Monitorare da vicino – si legge nella relazione – i lavori per la Tav che interessano la Val di Susa, l’andamento degli appalti e dei sub-appalti, nei quali è notorio che avvengono infiltrazioni della criminaltià organizzata. Con riguardo alle complicità e collusioni con esponenti della politica. Le indagini svolte dimostrano che il momento in cui è più facile accertarlo è in occasione delle consultazioni elettorali, in cui sono inevitabili i contatti tra i candidati disponibili ai compromessi e i responsabili delle ‘famiglie’ mafiose in grado di manovrare voti”.
Sin dagli anni ’70 il Piemonte si vede coinvolto in storie di ‘ndrine, una realtà ramificata su diversi comparti: dalla droga allo sfruttamento della prostituzione, dall’estorsione al gioco d’azzardo, dal traffico d’armi fino all’imprenditoria. E’ il 9 giugno del 2011 quando la colossale operazione ‘Minotauro’ porta all’arresto di 151 persone in tutta l’Italia, con 9 locali individuati proprio in Piemonte.
Dalle indagini, condotte comando provinciale dei carabinieri di Torino, spuntano rivelazioni sui rapporti tra le ‘ndrine calabresi e forze politiche, funzionari delle istituzioni e mondo imprenditoriale. “L’amorevole intreccio tra criminalità organizzata e politica dà a quest’inchiesta un risvolto inquietante. Il voto di scambio avveniva a qualsiasi livello. È una vergogna inaccettabile”, queste le parole pronunciate allora dal procuratore torinese Giancarlo Caselli. Dalle intercettazioni, poi, spuntò anche il nome dell’attuale sindaco di Torino, Piero Fassino. In una telefonata intercorsa tra l’onorevole Mimmo Lucà, esponente delle Acli sabaude, e il boss della ‘ndrangheta di Rivoli, Salvatore De Maso, si parla delle primarie del centrosinistra e di quale candidato ‘sostenere’. “Ecco che io sto sostenendo Fassino – dice Lucà al telefono -… Perché la partita è molto dura con Gariglio. Se magari hai qualche amico a Torino..”. “Si sì – risponde De Maso-, che ne ho. E facciamo.. facciamo, diciamo questi che conosciamo facciamo votare Fassino”. “Va bene e poi io, subito dopo, ci vediamo a bere un caffè. Magari così facciamo una chiacchierata”. Il giorno delle primarie, poi, è De Masi che chiama Lucà: “Ho fatto qualche commissione tutta la mattinata a Torino. Per il nostro amico. Comunque io dico che dovrebbe andare bene”. Ma l’onorevole torinese è ancora preoccupato: “Anche se è una battaglia abbastanza complicata”. De Masi conferma: “Eh perché insomma l’altro si è dato molto da fare anche”. L’altro sarebbe Davide Gariglio, il principale concorrente di Fassino per la candidatura a sindaco, il quale, dice ancora Lucà “ha anche lavorato molto sui Calabresi”.
Ed è qui che il racconto torna a intrecciarsi con le vicende dell’Alta Velocità. Il piatto della tratta Torino-Lione è particolarmente ricco, tra appalti e sub-appalti, si parla addirittura di un costo complessivo di 35 miliardi di euro in totale. Stime al ribasso, visto che le altre tratte ad Alta Velocità fatte in Italia hanno visto il loro costo crescere in maniera esorbitante durante i lavori. Tanto per dire, la Roma-Firenze è cresciuta di 6,8 volte rispetto ai preventivi, la Firenze-Bologna di 4 volte, la Milano-Torino di 5,6 volte.
Soldi usciti dalle casse statali ed entrati nelle taschi di non si sa chi. Di queste storie e delle infiltrazioni malavitose nell’attivazione delle tratte se n’è parlato parecchio negli anni passati, ma ogni volta che rispunta fuori un progetto di treni ad alta velocità, si fa sempre finta di non ricordare.
http://www.lsmetropolis.org/2012/02/ndrangheta-in-val-susa/
In Val di Susa c’è una guerra. Non quella tra i No Tave i sostentori dell’Alta velocità, ma uno scontro totale tra cosche della ‘ndrangheta. Dalla relazione 2011 della Direzione Nazionale Antimafia, emerge un quadro più che inquietante sull’andamento dei lavori per la costruzione della tratta Torino-Lione.
“Monitorare da vicino – si legge nella relazione – i lavori per la Tav che interessano la Val di Susa, l’andamento degli appalti e dei sub-appalti, nei quali è notorio che avvengono infiltrazioni della criminaltià organizzata. Con riguardo alle complicità e collusioni con esponenti della politica. Le indagini svolte dimostrano che il momento in cui è più facile accertarlo è in occasione delle consultazioni elettorali, in cui sono inevitabili i contatti tra i candidati disponibili ai compromessi e i responsabili delle ‘famiglie’ mafiose in grado di manovrare voti”.
Sin dagli anni ’70 il Piemonte si vede coinvolto in storie di ‘ndrine, una realtà ramificata su diversi comparti: dalla droga allo sfruttamento della prostituzione, dall’estorsione al gioco d’azzardo, dal traffico d’armi fino all’imprenditoria. E’ il 9 giugno del 2011 quando la colossale operazione ‘Minotauro’ porta all’arresto di 151 persone in tutta l’Italia, con 9 locali individuati proprio in Piemonte.
Dalle indagini, condotte comando provinciale dei carabinieri di Torino, spuntano rivelazioni sui rapporti tra le ‘ndrine calabresi e forze politiche, funzionari delle istituzioni e mondo imprenditoriale. “L’amorevole intreccio tra criminalità organizzata e politica dà a quest’inchiesta un risvolto inquietante. Il voto di scambio avveniva a qualsiasi livello. È una vergogna inaccettabile”, queste le parole pronunciate allora dal procuratore torinese Giancarlo Caselli. Dalle intercettazioni, poi, spuntò anche il nome dell’attuale sindaco di Torino, Piero Fassino. In una telefonata intercorsa tra l’onorevole Mimmo Lucà, esponente delle Acli sabaude, e il boss della ‘ndrangheta di Rivoli, Salvatore De Maso, si parla delle primarie del centrosinistra e di quale candidato ‘sostenere’. “Ecco che io sto sostenendo Fassino – dice Lucà al telefono -… Perché la partita è molto dura con Gariglio. Se magari hai qualche amico a Torino..”. “Si sì – risponde De Maso-, che ne ho. E facciamo.. facciamo, diciamo questi che conosciamo facciamo votare Fassino”. “Va bene e poi io, subito dopo, ci vediamo a bere un caffè. Magari così facciamo una chiacchierata”. Il giorno delle primarie, poi, è De Masi che chiama Lucà: “Ho fatto qualche commissione tutta la mattinata a Torino. Per il nostro amico. Comunque io dico che dovrebbe andare bene”. Ma l’onorevole torinese è ancora preoccupato: “Anche se è una battaglia abbastanza complicata”. De Masi conferma: “Eh perché insomma l’altro si è dato molto da fare anche”. L’altro sarebbe Davide Gariglio, il principale concorrente di Fassino per la candidatura a sindaco, il quale, dice ancora Lucà “ha anche lavorato molto sui Calabresi”.
Ed è qui che il racconto torna a intrecciarsi con le vicende dell’Alta Velocità. Il piatto della tratta Torino-Lione è particolarmente ricco, tra appalti e sub-appalti, si parla addirittura di un costo complessivo di 35 miliardi di euro in totale. Stime al ribasso, visto che le altre tratte ad Alta Velocità fatte in Italia hanno visto il loro costo crescere in maniera esorbitante durante i lavori. Tanto per dire, la Roma-Firenze è cresciuta di 6,8 volte rispetto ai preventivi, la Firenze-Bologna di 4 volte, la Milano-Torino di 5,6 volte.
Soldi usciti dalle casse statali ed entrati nelle taschi di non si sa chi. Di queste storie e delle infiltrazioni malavitose nell’attivazione delle tratte se n’è parlato parecchio negli anni passati, ma ogni volta che rispunta fuori un progetto di treni ad alta velocità, si fa sempre finta di non ricordare.
http://www.lsmetropolis.org/2012/02/ndrangheta-in-val-susa/
Il mondo tra Russia, Siria e Iran – Chiesa
Intervista a Giulietto Chiesa, giornalista e animatore di “Alternativa” e “Pandora Tv”. A cura di Gianni del Panta (La Prospettiva)
Nello scorso dicembre si sono tenute le elezioni per il rinnovo della Duma in Russia. Nonostante l’arretramento nei consensi conquistati da “Russia Unita”, il partito di Vladimir Putin si è confermato saldamente alla guida del Paese, ottenendo, anche grazie ad un sistema elettorale misto, la maggioranza assoluta dei seggi. Sulla regolarità di queste elezioni, che hanno anche segnato la brillante affermazione del “Partito Comunista della Federazione Russa”, ci sono stati giudizi discordanti da parte degli osservatori stranieri, mentre le opposizioni hanno risposto con numerose manifestazioni di piazza. A due settimane dalle elezioni presidenziali del 4 marzo, un suo giudizio sul passaggio politico che si vive in Russia.
Siamo certamente di fronte ad un cambio di fase politica. Putin fino adesso aveva infatti governato, in modo diretto o per interposta persona (Medvedev), senza una reale e tangibile opposizione. Le elezioni parlamentari dello scorso dicembre e le successive manifestazioni di protesta hanno delineato però uno scenario del tutto nuovo, con l’emersione di un’opposizione radicata e conflittuale. Probabilmente il maggiore limite dei movimenti contestatori è oggi dato dalla loro grande frammentazione ed eterogeneità. L’ostilità nei confronti di “Russia Unita” coagula infatti dall’estrema destra ai comunisti ortodossi, in uno scenario peraltro reso più complicato da un fervente nazionalismo trasversale a qualsiasi forza politica. Le elezioni presidenziali di marzo, anche per questo, appaiono ampiamente scontate, con la vittoria di Putin che non può essere oggetto di dubbio. Più interessante sarà vedere se lo “zar di Mosca” si accontenterà di vincere al secondo turno (dove probabilmente sfiderà il leader comunista Zjuganov), oppure se punterà alla conquista della maggioranza assoluta dei voti e quindi al successo immediato. Come nello scorso dicembre ci troveremo a commentare risultati che non saranno reali, ma semplicemente il frutto della manipolazione elettorale da parte dell’élite dominante. Nonostante questo, per non esacerbare un clima già teso, mi aspetto che Putin sia dichiarato vincitore al secondo turno. La vera domanda a cui rispondere è però quali saranno le ripercussioni politiche di questo nuovo scenario che si è delineato negli ultimi mesi. Nelle scorse settimane Zjuganov ha offerto la collaborazione del movimento comunista ad un governo di coalizione con “Russia Unita”, con la quale, nonostante le evidenti divergenze in politica interna, esiste una vasta convergenza sul ruolo che il Paese dovrà giocare nei futuri assetti di potere a livello mondiale. Insomma, il terzo mandato presidenziale di Putin non sarà certamente uguale ai precedenti.
Nelle ultime settimane il “rebus siriano” sembra essersi ulteriormente intricato, con le massime potenze internazionali che muovono freneticamente le proprie pedine nella speranza di poter difendere i propri interessi. Cosa è lecito attendersi nelle prossime settimane?
Effettivamente la partita che si sta giocando in Siria è molto complicata. Al momento Assad si trova accerchiato, costretto a subire la fortissima pressione del Qatar e dell’Arabia Saudita che lavorano, più o meno segretamente, per la caduta del suo governo. La posizione di netta contrarietà da parte di Russia e Cina a qualsiasi intervento diretto da parte delle potenze occidentali ha sventato l’evenienza che la Siria si trasformasse in una nuova Libia. La mancanza di legittimazione a livello internazionale blocca quindi la possibilità di una sostituzione violenta del presidente siriano. Nelle ultime settimane, soprattutto per iniziativa russa, ha così preso campo la possibilità di un vasto progetto di riforma costituzionale del sistema. Tale prospettiva si lega ovviamente alla presenza in Siria di forze interne in grado di gestire una difficile transizione. Un’evenienza che però, per adesso, rimane ancora in attesa di conferme.
Non molto lontano dalla Siria si trova anche l’Iran…
Personalmente ritengo questo, e non la Siria, il vero fronte caldo al momento. Indubbiamente stiamo correndo verso un attacco allo stato persiano entro la fine della prossima estate. Una guerra che sarà molto diversa dalle ultime che abbiamo conosciuto (Afghanistan, Iraq e Libia). L’Iran infatti, in virtù delle proprie dimensioni politiche e militari si difenderà strenuamente, aprendo la strada ad una guerra dall’esito tutt’altro che scontato. Un’operazione militare pericolosa anche per l’Europa, dato che è ipotizzabile il coinvolgimento della NATO, mentre i Paesi del Vecchio Continente potrebbero procedere nuovamente, come già successo in passato, in ordine sparso. Francia, Gran Bretagna, Olanda, Belgio e Polonia dovrebbero appoggiare direttamente nell’operazione gli Stati Uniti, mentre la Germania assumerà una posizione neutrale. Questo apparirà come il chiaro segno politico che una parte dell’Europa ha ormai esplicitamente compreso che i propri interessi e quelli a stelle e strisce sono divergenti. Siamo alla vigilia di una guerra che avrà importanti ripercussioni sui nostri rapporti con Cina e Russia e sulla politica monetaria dell’Europa. Non dimenticandoci mai della disastrosa situazione economica nella quale ci troviamo. Insomma, si prospetta un 2012 alquanto turbolento.
Fonte: La prospettiva
Nello scorso dicembre si sono tenute le elezioni per il rinnovo della Duma in Russia. Nonostante l’arretramento nei consensi conquistati da “Russia Unita”, il partito di Vladimir Putin si è confermato saldamente alla guida del Paese, ottenendo, anche grazie ad un sistema elettorale misto, la maggioranza assoluta dei seggi. Sulla regolarità di queste elezioni, che hanno anche segnato la brillante affermazione del “Partito Comunista della Federazione Russa”, ci sono stati giudizi discordanti da parte degli osservatori stranieri, mentre le opposizioni hanno risposto con numerose manifestazioni di piazza. A due settimane dalle elezioni presidenziali del 4 marzo, un suo giudizio sul passaggio politico che si vive in Russia.
Siamo certamente di fronte ad un cambio di fase politica. Putin fino adesso aveva infatti governato, in modo diretto o per interposta persona (Medvedev), senza una reale e tangibile opposizione. Le elezioni parlamentari dello scorso dicembre e le successive manifestazioni di protesta hanno delineato però uno scenario del tutto nuovo, con l’emersione di un’opposizione radicata e conflittuale. Probabilmente il maggiore limite dei movimenti contestatori è oggi dato dalla loro grande frammentazione ed eterogeneità. L’ostilità nei confronti di “Russia Unita” coagula infatti dall’estrema destra ai comunisti ortodossi, in uno scenario peraltro reso più complicato da un fervente nazionalismo trasversale a qualsiasi forza politica. Le elezioni presidenziali di marzo, anche per questo, appaiono ampiamente scontate, con la vittoria di Putin che non può essere oggetto di dubbio. Più interessante sarà vedere se lo “zar di Mosca” si accontenterà di vincere al secondo turno (dove probabilmente sfiderà il leader comunista Zjuganov), oppure se punterà alla conquista della maggioranza assoluta dei voti e quindi al successo immediato. Come nello scorso dicembre ci troveremo a commentare risultati che non saranno reali, ma semplicemente il frutto della manipolazione elettorale da parte dell’élite dominante. Nonostante questo, per non esacerbare un clima già teso, mi aspetto che Putin sia dichiarato vincitore al secondo turno. La vera domanda a cui rispondere è però quali saranno le ripercussioni politiche di questo nuovo scenario che si è delineato negli ultimi mesi. Nelle scorse settimane Zjuganov ha offerto la collaborazione del movimento comunista ad un governo di coalizione con “Russia Unita”, con la quale, nonostante le evidenti divergenze in politica interna, esiste una vasta convergenza sul ruolo che il Paese dovrà giocare nei futuri assetti di potere a livello mondiale. Insomma, il terzo mandato presidenziale di Putin non sarà certamente uguale ai precedenti.
Nelle ultime settimane il “rebus siriano” sembra essersi ulteriormente intricato, con le massime potenze internazionali che muovono freneticamente le proprie pedine nella speranza di poter difendere i propri interessi. Cosa è lecito attendersi nelle prossime settimane?
Effettivamente la partita che si sta giocando in Siria è molto complicata. Al momento Assad si trova accerchiato, costretto a subire la fortissima pressione del Qatar e dell’Arabia Saudita che lavorano, più o meno segretamente, per la caduta del suo governo. La posizione di netta contrarietà da parte di Russia e Cina a qualsiasi intervento diretto da parte delle potenze occidentali ha sventato l’evenienza che la Siria si trasformasse in una nuova Libia. La mancanza di legittimazione a livello internazionale blocca quindi la possibilità di una sostituzione violenta del presidente siriano. Nelle ultime settimane, soprattutto per iniziativa russa, ha così preso campo la possibilità di un vasto progetto di riforma costituzionale del sistema. Tale prospettiva si lega ovviamente alla presenza in Siria di forze interne in grado di gestire una difficile transizione. Un’evenienza che però, per adesso, rimane ancora in attesa di conferme.
Non molto lontano dalla Siria si trova anche l’Iran…
Personalmente ritengo questo, e non la Siria, il vero fronte caldo al momento. Indubbiamente stiamo correndo verso un attacco allo stato persiano entro la fine della prossima estate. Una guerra che sarà molto diversa dalle ultime che abbiamo conosciuto (Afghanistan, Iraq e Libia). L’Iran infatti, in virtù delle proprie dimensioni politiche e militari si difenderà strenuamente, aprendo la strada ad una guerra dall’esito tutt’altro che scontato. Un’operazione militare pericolosa anche per l’Europa, dato che è ipotizzabile il coinvolgimento della NATO, mentre i Paesi del Vecchio Continente potrebbero procedere nuovamente, come già successo in passato, in ordine sparso. Francia, Gran Bretagna, Olanda, Belgio e Polonia dovrebbero appoggiare direttamente nell’operazione gli Stati Uniti, mentre la Germania assumerà una posizione neutrale. Questo apparirà come il chiaro segno politico che una parte dell’Europa ha ormai esplicitamente compreso che i propri interessi e quelli a stelle e strisce sono divergenti. Siamo alla vigilia di una guerra che avrà importanti ripercussioni sui nostri rapporti con Cina e Russia e sulla politica monetaria dell’Europa. Non dimenticandoci mai della disastrosa situazione economica nella quale ci troviamo. Insomma, si prospetta un 2012 alquanto turbolento.
Fonte: La prospettiva
sabato 18 febbraio 2012
Incontro 2: Attualità del manifesto del Partito Comunista
Giovani Comunisti Torino inaugurano i cicli di formazione "Nuovo Immaginario"
Incontro 2
Attualità del Manifesto del Partito Comunista
Con:
Gianfranco Ragona - Docente di storia delle dottrine politiche
Guido Salza - Giovani Comunisti
20 febbario 2012 Ore 20:30
Via Brindisi 18/c, TorinoVisualizza altro
Incontro 2
Attualità del Manifesto del Partito Comunista
Con:
Gianfranco Ragona - Docente di storia delle dottrine politiche
Guido Salza - Giovani Comunisti
20 febbario 2012 Ore 20:30
Via Brindisi 18/c, TorinoVisualizza altro
L'europa non esiste: c'è solo il capitalismo europeo
L'Unione Europea decreta la morte della Grecia
"Stiamo assistendo al grande successo dell'Euro e qual è la manifestazione più concreta del grande successo dell'euro? La Grecia" (Mario Monti)
Oggi più che mai questa dichiarazione di un anno fa mostra cinicamente la crudeltà del capitalismo e del nostro governo.
La riforma greca voluta dall'UE in sintesi: diminuzione di oltre il 20% del salario minimo garantito e un taglio nelle pensioni; la vendita dei gioielli di famiglia, come le quote pubbliche in petrolio, gas, acqua e lotteria. L'ossigeno non sarà tassato, per ora. Tutto questo per ricapitalizzare le banche, le stesse banche che hanno causato la crisi. Cosa si sta facendo? Si taglia.
La Troika UE/BCE/FMI aggrava la condizione sociale dei greci, giunta ormai a livelli deprecabili.
Troviamo neonati denutriti perché i genitori non sono più in grado di alimentarli a sufficienza; le grandi case farmaceutiche iniziano a sospendere la fornitura di farmaci. Fra i giovani la disoccupazione è alle stelle, il 40 per cento di quelli compresi fra i 18 e i 30 anni è disoccupato; i dati ufficiali del ministero della salute ellenico, mostrano un aumento del 40% dei suicidi nei primi cinque mesi dell’anno in corso, rispetto allo stesso periodo del precedente anno. Ripeto: aumento del 40%. la risposta del commissariamento della BCE? Tagliare ancora le pensioni. Il 2012 si prospetta come l'anno dell'apocalisse per la Grecia, che difficilmente riuscirà ad alzare la testa.
“Le misure d’austerità: un pericolo per la democrazia e i diritti sociali. I salari e le pensioni sono stati decurtati del 50% o addirittura, in certi casi, del 70%. La malnutrizione imperversa fra i bambini delle elementari, la fame fa la sua comparsa soprattutto nelle grandi città del paese, il cui centro è ormai occupato da decine di migliaia di Senza fissa dimora, affamati e cenciosi. La disoccupazione colpisce ormai il 25% della popolazione e il 45% dei giovani (il 49,5% delle giovani donne). I servizi pubblici sono stati ormai liquidati o privatizzati, con la conseguenza che i posti letto negli ospedali si sono ridotti (per decisione governativa) del 40%, che costa carissimo addirittura partorire, che gli ospedali pubblici sono ormai privi di bende o di medicine di base come l’aspirina" (Sonia Mitralia, membro del Comitato greco contro il debito)
La cosiddetta “troika” composta da Fmi, Bce e Ue sta commettendo uno dei più gravi reati dei tempi moderni: affamare un popolo. L’ennesima imposizione: applicare nuove misure di austerità in Grecia, con la riduzione degli stipendi, nuovi licenziamenti e tagli ai servizi sociali.
La Bce e l’Fmi affamano il popolo greco senza avere risolto il problema del debito ellenico. Il sindacato della Polizia greca, la Poasy, ha chiesto l’arresto dei rappresentanti ad Atene di Bce e Fmi, denunciando gravi violazioni penali.
Ma cosa stiamo diventando? Schiavi dei nuovi imperi della finanza?
"Stanno votando la morte della Grecia. Noi abbiamo vinto contro i Nazisti, abbiamo vinto contro la dittatura fascista e vinceremo anche questa volta" (Mikis Theodorakis)
La dittatura dei mercati
Il ministro Papademos ha usato l’espressione “punto di non ritorno” per descrivere l’attuale situazione della Grecia. Chiedendo il voto dei parlamentari dei due maggiori partiti, Nuova Democrazia e Pasok, il primo ministro ha esortato i greci a reagire in nome di un patriottismo, il cui obiettivo deve essere quello di salvare il paese dalla catastrofe. Papademos, ex vice presidente della BCE svende e massacra il suo popolo in nome dei mercati mondiali e prova a giustificare tale assassinio come un "gesto patriottico". La BCE e l'UE uccidono le patrie, Papademos sta uccidendo il popolo greco.
I comunisti greci accusano l'esecutivo di svendere il paese agli interessi dei monopoli capitalistici dell'Unione Europea ed in particolare a quelli di Berlino.
Quel clima di attesa che ha caratterizzato le tre giornate di sciopero generale che martedi, venerdì e sabato hanno paralizzato la Grecia, nel tentativo di impedire la svendita del paese agli interessi di un'Unione Europea sempre più tedesca, hanno lasciato oggi campo libero alla rabbia.
Il Parlamento greco è stato assediato da 200 mila manifestanti, moltissimi gli scontri durissimi nel centro di Atene e molte altre citta' della Grecia. Nei giorni scorsi, la troika è stata pesantemente contestata in Portogallo. 300mila i manifestanti.
Irlanda, Portogallo, Spagna, Italia e Grecia. L'UE e la BCE mettono in pericolo sovranità e democrazia! Oggi in Grecia, domani?
Manolis Glezos, che nel 1941 sotto occupazione nazista, si arrampicò sull'acropoli e tirò giù il simbolo della svastica nazista, ieri è stato malmenato dalla polizia.
Il Parlamento ha votato la capitolazione del paese. Centinaia di migliaia di persone in piazza. Quello che era cominciato come un assedio si è trasformato in una battaglia campale in tutta la Grecia: scontri ovunque, decine di edifici pubblici e banche assaltati e incendiati, per salvare il futuro di un popolo trascinato in guerra. Non c'è più neanche quell'illusione, imperante fino a qualche tempo fa, in una parte consistente della popolazione, che il massacro sociale fosse, sì ingiusto, ma indispensabile a salvare il paese dal default. Mese dopo mese è stato tagliato tutto ciò che era possibile tagliare, milioni di greci sono stati gettati nel baratro della disoccupazione, della precarietà, della fame. Una ventina di scioperi generali in tre anni, occupazioni, blocchi stradali, atti di disobbedienza civile non sono riusciti a fermare un processo di impoverimento di diritti e di sovranità.
"Sia maledetto il soldato che spara contro il suo stesso popolo". (S.Bolivar)
La polizia ha malmenato il proprio popolo, tra cui il cantautore Mikis Theodorakis e l'ex partigiano Manolis Glezos (entrambi ottantenni).
Tutto il centro di Atene è stato teatro di scontri, numerosi gli arresti. E' avvenuta una vera e propria battaglia campale, in atto, non solo nel centro della capitale ma in numerosissimi quartieri e in altre città, e nonostante una rivolta popolare senza precedenti il Parlamento coloniale di Atene ha approvato quella che può essere considerata una capitolazione. Alle imposizioni dei mercati e della troika (Bce, Fmi e UE) hanno detto sì 199 deputati, no 74 e 5 si sono astenuti. Il ricatto che ha cancellato, nuovamente, la democrazia ellenica.
I due partiti che sostengono il governo del primo ministro Lucas Papademos hanno espulso ieri notte oltre 40 deputati che hanno votato 'no' al 'memorandum'. Nuova Democrazia ha annunciato di avere espulso 21 dei suoi 83 deputati, mentre il partito socialista Pasok circa 20 su un totale di 153.
Le crisi del capitalismo
Non dobbiamo sorprenderci che l'Europa abbia bisogno di crisi, di gravi crisi, per fare passi avanti. I passi avanti dell'Europa sono per definizione cessioni di parti della sovranità nazionale ad un livello comunitario (M.Monti)
La crisi non è una eccezione ma è la norma del sistema economico capitalista.
Negli ultimi venticinque anni ci sono state già altre sette crisi, soprattutto nel settore finanziario:
1987: crack a Wall Street
1992: crisi del Sistema Monetario Europeo con la fuoriuscita dal sistema della Lira e della Sterlina
1994/95: crisi finanziaria in Messico a pochi mesi dal varo del Nafta con Usa e Canada
1997: crisi finanziaria in Giappone, Corea e in altri paesi asiatici.
1998: crisi finanziaria in Russia e svalutazione pesantissima del rublo
1999: crisi in Argentina dovuta proprio al default del debito
2001: crisi di nuovo negli Usa a causa dell’esplosione della bolla speculativa sulla Net-Economy.
2007: esplode una nuova crisi, alla quale siamo ancora dentro.
Perchè è necessario riconquistare la sovranità?
La sovranità nazionale è l'indipendenza che permette ad una nazione la possibilità di decidere del proprio destino. Nel nostro periodo storico, visto la dominazione globale degli Stati Uniti e il tentativo maldestro dell'Unione Euopea, questa questione ritorna importante ed attuale. La difesa dell’indipendenza implica l’adozione di una politica nazionale ed estera in linea con i propri interessi nazionali.
Il Fondo Monetario Internazionale, la BCE, l'Unione Europea, ecc, vogliono decidere per noi, al solo fine dei loro interessi.. Esiste un'alternativa?
Sì. Pensiamo allo sviluppo economico di alcuni paesi emergenti, che in gran parte, hanno rifiutato i piani fallimentari del FMI per approdare ad un intervento statale in economia. Penso al Venezuela o all'Argentina.
Lo stato deve essere libero di scegliere il proprio destino e non è tollerabile essere la pedina in mano ad interessi di autorità esterne, che ci dettano l'agenda politica/economica e le manovre da macelleria sociale, come stiamo vivendo ora con il commissariamento del Governo Monti.
Il commissariamento della Grecia ha portato la totale perdita di sovranità e la completa distruzione di tutte le conquiste ottenute dai lavoratori, in pochi instanti hanno cancellato le vittorie di 40anni di lotte. Ora tocca all'Italia.
"I lavoratori devono rendersi conto delle cause della crisi e prepararsi per una vera guerra: consapevole, pianificata e organizzata che conduca al rovesciamento del potere" (Aleka Papariga, segretario KKE)
La Grecia e l'Italia
Esprimo la piena solidarietà a tutto il popolo greco che sta subendo l’ennesimo pacchetto di austerità. Il sistema capitalistico svende le nazioni per salvaguardare i mercati mondiali. I nostri sacrifici e la nostra miseria sono dovuti a questo sistema.
La sinistra greca accusa l'Unione Europea di svendere il proprio paese. In Italia il PD sostiene Monti nella svendita. Il popolo greco ha assediato il parlamento. In difesa della sovranità nazionale contro: Unione Europea, Fondo Monetario Internazionale, Banca Centrale Europea. La soluzione è davanti ai nostri occhi: abbattere il neoliberismo e costruire un'alternativa concreta, credibile e reale, che basi la sua prospettiva sull'indipendenza, il socialismo e la giustizia sociale.
"Ora la responsabilità è esclusivamente del popolo. O il popolo li spazzerà via definitivamente o continuerà a versare lacrime e indignazione inutilmente ed ingiustamente con le vecchie e nuove forze pseudo-salvatrici"- Aleka Papariga (Segretario KKE)
Andrea 'Perno' Salutari
Fonte: Patria del ribelle
"Stiamo assistendo al grande successo dell'Euro e qual è la manifestazione più concreta del grande successo dell'euro? La Grecia" (Mario Monti)
Oggi più che mai questa dichiarazione di un anno fa mostra cinicamente la crudeltà del capitalismo e del nostro governo.
La riforma greca voluta dall'UE in sintesi: diminuzione di oltre il 20% del salario minimo garantito e un taglio nelle pensioni; la vendita dei gioielli di famiglia, come le quote pubbliche in petrolio, gas, acqua e lotteria. L'ossigeno non sarà tassato, per ora. Tutto questo per ricapitalizzare le banche, le stesse banche che hanno causato la crisi. Cosa si sta facendo? Si taglia.
La Troika UE/BCE/FMI aggrava la condizione sociale dei greci, giunta ormai a livelli deprecabili.
Troviamo neonati denutriti perché i genitori non sono più in grado di alimentarli a sufficienza; le grandi case farmaceutiche iniziano a sospendere la fornitura di farmaci. Fra i giovani la disoccupazione è alle stelle, il 40 per cento di quelli compresi fra i 18 e i 30 anni è disoccupato; i dati ufficiali del ministero della salute ellenico, mostrano un aumento del 40% dei suicidi nei primi cinque mesi dell’anno in corso, rispetto allo stesso periodo del precedente anno. Ripeto: aumento del 40%. la risposta del commissariamento della BCE? Tagliare ancora le pensioni. Il 2012 si prospetta come l'anno dell'apocalisse per la Grecia, che difficilmente riuscirà ad alzare la testa.
“Le misure d’austerità: un pericolo per la democrazia e i diritti sociali. I salari e le pensioni sono stati decurtati del 50% o addirittura, in certi casi, del 70%. La malnutrizione imperversa fra i bambini delle elementari, la fame fa la sua comparsa soprattutto nelle grandi città del paese, il cui centro è ormai occupato da decine di migliaia di Senza fissa dimora, affamati e cenciosi. La disoccupazione colpisce ormai il 25% della popolazione e il 45% dei giovani (il 49,5% delle giovani donne). I servizi pubblici sono stati ormai liquidati o privatizzati, con la conseguenza che i posti letto negli ospedali si sono ridotti (per decisione governativa) del 40%, che costa carissimo addirittura partorire, che gli ospedali pubblici sono ormai privi di bende o di medicine di base come l’aspirina" (Sonia Mitralia, membro del Comitato greco contro il debito)
La cosiddetta “troika” composta da Fmi, Bce e Ue sta commettendo uno dei più gravi reati dei tempi moderni: affamare un popolo. L’ennesima imposizione: applicare nuove misure di austerità in Grecia, con la riduzione degli stipendi, nuovi licenziamenti e tagli ai servizi sociali.
La Bce e l’Fmi affamano il popolo greco senza avere risolto il problema del debito ellenico. Il sindacato della Polizia greca, la Poasy, ha chiesto l’arresto dei rappresentanti ad Atene di Bce e Fmi, denunciando gravi violazioni penali.
Ma cosa stiamo diventando? Schiavi dei nuovi imperi della finanza?
"Stanno votando la morte della Grecia. Noi abbiamo vinto contro i Nazisti, abbiamo vinto contro la dittatura fascista e vinceremo anche questa volta" (Mikis Theodorakis)
La dittatura dei mercati
Il ministro Papademos ha usato l’espressione “punto di non ritorno” per descrivere l’attuale situazione della Grecia. Chiedendo il voto dei parlamentari dei due maggiori partiti, Nuova Democrazia e Pasok, il primo ministro ha esortato i greci a reagire in nome di un patriottismo, il cui obiettivo deve essere quello di salvare il paese dalla catastrofe. Papademos, ex vice presidente della BCE svende e massacra il suo popolo in nome dei mercati mondiali e prova a giustificare tale assassinio come un "gesto patriottico". La BCE e l'UE uccidono le patrie, Papademos sta uccidendo il popolo greco.
I comunisti greci accusano l'esecutivo di svendere il paese agli interessi dei monopoli capitalistici dell'Unione Europea ed in particolare a quelli di Berlino.
Quel clima di attesa che ha caratterizzato le tre giornate di sciopero generale che martedi, venerdì e sabato hanno paralizzato la Grecia, nel tentativo di impedire la svendita del paese agli interessi di un'Unione Europea sempre più tedesca, hanno lasciato oggi campo libero alla rabbia.
Il Parlamento greco è stato assediato da 200 mila manifestanti, moltissimi gli scontri durissimi nel centro di Atene e molte altre citta' della Grecia. Nei giorni scorsi, la troika è stata pesantemente contestata in Portogallo. 300mila i manifestanti.
Irlanda, Portogallo, Spagna, Italia e Grecia. L'UE e la BCE mettono in pericolo sovranità e democrazia! Oggi in Grecia, domani?
Manolis Glezos, che nel 1941 sotto occupazione nazista, si arrampicò sull'acropoli e tirò giù il simbolo della svastica nazista, ieri è stato malmenato dalla polizia.
Il Parlamento ha votato la capitolazione del paese. Centinaia di migliaia di persone in piazza. Quello che era cominciato come un assedio si è trasformato in una battaglia campale in tutta la Grecia: scontri ovunque, decine di edifici pubblici e banche assaltati e incendiati, per salvare il futuro di un popolo trascinato in guerra. Non c'è più neanche quell'illusione, imperante fino a qualche tempo fa, in una parte consistente della popolazione, che il massacro sociale fosse, sì ingiusto, ma indispensabile a salvare il paese dal default. Mese dopo mese è stato tagliato tutto ciò che era possibile tagliare, milioni di greci sono stati gettati nel baratro della disoccupazione, della precarietà, della fame. Una ventina di scioperi generali in tre anni, occupazioni, blocchi stradali, atti di disobbedienza civile non sono riusciti a fermare un processo di impoverimento di diritti e di sovranità.
"Sia maledetto il soldato che spara contro il suo stesso popolo". (S.Bolivar)
La polizia ha malmenato il proprio popolo, tra cui il cantautore Mikis Theodorakis e l'ex partigiano Manolis Glezos (entrambi ottantenni).
Tutto il centro di Atene è stato teatro di scontri, numerosi gli arresti. E' avvenuta una vera e propria battaglia campale, in atto, non solo nel centro della capitale ma in numerosissimi quartieri e in altre città, e nonostante una rivolta popolare senza precedenti il Parlamento coloniale di Atene ha approvato quella che può essere considerata una capitolazione. Alle imposizioni dei mercati e della troika (Bce, Fmi e UE) hanno detto sì 199 deputati, no 74 e 5 si sono astenuti. Il ricatto che ha cancellato, nuovamente, la democrazia ellenica.
I due partiti che sostengono il governo del primo ministro Lucas Papademos hanno espulso ieri notte oltre 40 deputati che hanno votato 'no' al 'memorandum'. Nuova Democrazia ha annunciato di avere espulso 21 dei suoi 83 deputati, mentre il partito socialista Pasok circa 20 su un totale di 153.
Le crisi del capitalismo
Non dobbiamo sorprenderci che l'Europa abbia bisogno di crisi, di gravi crisi, per fare passi avanti. I passi avanti dell'Europa sono per definizione cessioni di parti della sovranità nazionale ad un livello comunitario (M.Monti)
La crisi non è una eccezione ma è la norma del sistema economico capitalista.
Negli ultimi venticinque anni ci sono state già altre sette crisi, soprattutto nel settore finanziario:
1987: crack a Wall Street
1992: crisi del Sistema Monetario Europeo con la fuoriuscita dal sistema della Lira e della Sterlina
1994/95: crisi finanziaria in Messico a pochi mesi dal varo del Nafta con Usa e Canada
1997: crisi finanziaria in Giappone, Corea e in altri paesi asiatici.
1998: crisi finanziaria in Russia e svalutazione pesantissima del rublo
1999: crisi in Argentina dovuta proprio al default del debito
2001: crisi di nuovo negli Usa a causa dell’esplosione della bolla speculativa sulla Net-Economy.
2007: esplode una nuova crisi, alla quale siamo ancora dentro.
Perchè è necessario riconquistare la sovranità?
La sovranità nazionale è l'indipendenza che permette ad una nazione la possibilità di decidere del proprio destino. Nel nostro periodo storico, visto la dominazione globale degli Stati Uniti e il tentativo maldestro dell'Unione Euopea, questa questione ritorna importante ed attuale. La difesa dell’indipendenza implica l’adozione di una politica nazionale ed estera in linea con i propri interessi nazionali.
Il Fondo Monetario Internazionale, la BCE, l'Unione Europea, ecc, vogliono decidere per noi, al solo fine dei loro interessi.. Esiste un'alternativa?
Sì. Pensiamo allo sviluppo economico di alcuni paesi emergenti, che in gran parte, hanno rifiutato i piani fallimentari del FMI per approdare ad un intervento statale in economia. Penso al Venezuela o all'Argentina.
Lo stato deve essere libero di scegliere il proprio destino e non è tollerabile essere la pedina in mano ad interessi di autorità esterne, che ci dettano l'agenda politica/economica e le manovre da macelleria sociale, come stiamo vivendo ora con il commissariamento del Governo Monti.
Il commissariamento della Grecia ha portato la totale perdita di sovranità e la completa distruzione di tutte le conquiste ottenute dai lavoratori, in pochi instanti hanno cancellato le vittorie di 40anni di lotte. Ora tocca all'Italia.
"I lavoratori devono rendersi conto delle cause della crisi e prepararsi per una vera guerra: consapevole, pianificata e organizzata che conduca al rovesciamento del potere" (Aleka Papariga, segretario KKE)
La Grecia e l'Italia
Esprimo la piena solidarietà a tutto il popolo greco che sta subendo l’ennesimo pacchetto di austerità. Il sistema capitalistico svende le nazioni per salvaguardare i mercati mondiali. I nostri sacrifici e la nostra miseria sono dovuti a questo sistema.
La sinistra greca accusa l'Unione Europea di svendere il proprio paese. In Italia il PD sostiene Monti nella svendita. Il popolo greco ha assediato il parlamento. In difesa della sovranità nazionale contro: Unione Europea, Fondo Monetario Internazionale, Banca Centrale Europea. La soluzione è davanti ai nostri occhi: abbattere il neoliberismo e costruire un'alternativa concreta, credibile e reale, che basi la sua prospettiva sull'indipendenza, il socialismo e la giustizia sociale.
"Ora la responsabilità è esclusivamente del popolo. O il popolo li spazzerà via definitivamente o continuerà a versare lacrime e indignazione inutilmente ed ingiustamente con le vecchie e nuove forze pseudo-salvatrici"- Aleka Papariga (Segretario KKE)
Andrea 'Perno' Salutari
Fonte: Patria del ribelle
Le mani della ‘ndrangheta sulla Val di Susa
In Val di Susa c’è una guerra. Non quella tra i No Tav e i sostentori dell’Alta velocità, ma uno scontro totale tra cosche della ‘ndrangheta. Dalla relazione 2011 della Direzione Nazionale Antimafia, emerge un quadro più che inquietante sull’andamento dei lavori per la costruzione della tratta Torino-Lione.
“Monitorare da vicino – si legge nella relazione – i lavori per la Tav che interessano la Val di Susa, l’andamento degli appalti e dei sub-appalti, nei quali è notorio che avvengono infiltrazioni della criminaltià organizzata. Con riguardo alle complicità e collusioni con esponenti della politica. Le indagini svolte dimostrano che il momento in cui è più facile accertarlo è in occasione delle consultazioni elettorali, in cui sono inevitabili i contatti tra i candidati disponibili ai compromessi e i responsabili delle ‘famiglie’ mafiose in grado di manovrare voti”.
Sin dagli anni ’70 il Piemonte si vede coinvolto in storie di ‘ndrine, una realtà ramificata su diversi comparti: dalla droga allo sfruttamento della prostituzione, dall’estorsione al gioco d’azzardo, dal traffico d’armi fino all’imprenditoria. E’ il 9 giugno del 2011 quando la colossale operazione ‘Minotauro’ porta all’arresto di 151 persone in tutta l’Italia, con 9 locali individuati proprio in Piemonte.
Dalle indagini, condotte comando provinciale dei carabinieri di Torino, spuntano rivelazioni sui rapporti tra le ‘ndrine calabresi e forze politiche, funzionari delle istituzioni e mondo imprenditoriale. “L’amorevole intreccio tra criminalità organizzata e politica dà a quest’inchiesta un risvolto inquietante. Il voto di scambio avveniva a qualsiasi livello. È una vergogna inaccettabile”, queste le parole pronunciate allora dal procuratore torinese Giancarlo Caselli. Dalle intercettazioni, poi, spuntò anche il nome dell’attuale sindaco di Torino, Piero Fassino. In una telefonata intercorsa tra l’onorevole Mimmo Lucà, esponente delle Acli sabaude, e il boss della ‘ndrangheta di Rivoli, Salvatore De Maso, si parla delle primarie del centrosinistra e di quale candidato ‘sostenere’. “Ecco che io sto sostenendo Fassino – dice Lucà al telefono -… Perché la partita è molto dura con Gariglio. Se magari hai qualche amico a Torino..”. “Si sì – risponde De Maso-, che ne ho. E facciamo.. facciamo, diciamo questi che conosciamo facciamo votare Fassino”. “Va bene e poi io, subito dopo, ci vediamo a bere un caffè. Magari così facciamo una chiacchierata”. Il giorno delle primarie, poi, è De Masi che chiama Lucà: “Ho fatto qualche commissione tutta la mattinata a Torino. Per il nostro amico. Comunque io dico che dovrebbe andare bene”. Ma l’onorevole torinese è ancora preoccupato: “Anche se è una battaglia abbastanza complicata”. De Masi conferma: “Eh perché insomma l’altro si è dato molto da fare anche”. L’altro sarebbe Davide Gariglio, il principale concorrente di Fassino per la candidatura a sindaco, il quale, dice ancora Lucà “ha anche lavorato molto sui Calabresi”.
Ed è qui che il racconto torna a intrecciarsi con le vicende dell’Alta Velocità. Il piatto della tratta Torino-Lione è particolarmente ricco, tra appalti e sub-appalti, si parla addirittura di un costo complessivo di 35 miliardi di euro in totale. Stime al ribasso, visto che le altre tratte ad Alta Velocità fatte in Italia hanno visto il loro costo crescere in maniera esorbitante durante i lavori. Tanto per dire, la Roma-Firenze è cresciuta di 6,8 volte rispetto ai preventivi, la Firenze-Bologna di 4 volte, la Milano-Torino di 5,6 volte.
Soldi usciti dalle casse statali ed entrati nelle taschi di non si sa chi. Di queste storie e delle infiltrazioni malavitose nell’attivazione delle tratte se n’è parlato parecchio negli anni passati, ma ogni volta che rispunta fuori un progetto di treni ad alta velocità, si fa sempre finta di non ricordare.
Fonte: lsmetropolis
Mimmo Porcaro: Lezioni dalla crisi
Ci diciamo spesso che la crisi ha confermato le nostre idee. Ma ciò è vero solo in parte. Ha confermato che il capitalismo, oltre ad essere iniquo, “non funziona”. Ma ci costringe a cambiare o aggiornare molte delle nostre più radicate convinzioni sul blocco sociale anticapitalista, e sullo spazio e gli obiettivi della sua azione. In sintesi, si può dire che il modello maturato a Porto Alegre e Genova agli inizi del nuovo secolo è ormai superato dai fatti: se ne vogliamo custodire e tramandare le acquisizioni fondamentali, soprattutto quelle relative alla democrazia ed alla molteplicità dei soggetti dell’emancipazione, dobbiamo inscriverle in un quadro concettuale del tutto nuovo.
L’inefficacia di quel modello è evidente in primo luogo riguardo al populismo. La mobilitazione democratica delle associazioni altruistiche non è in grado di intercettare problemi, umori e linguaggi della parte più deprivata delle classi subalterne. Questa parte, fatta di lavoratori dipendenti a bassa qualificazione, di autonomi che sono in realtà più dipendenti dei primi (si pensi al lavoro dell’autotrasportatore, strettamente legato – a rischio della vita – ai tempi dell’impresa) e di ceto medio fortemente impoverito dalla crisi generale, si allea ad alcune frazioni, meno forti, della borghesia anche perché l’altra parte del popolo, quella composta di dipendenti ed autonomi ad alta qualificazione, si allea di fatto alla frazione forte, globalista ed europeista del nostro capitalismo. Rompere queste alleanze, e costruirne una, nuova, tra le diverse frazioni popolari, è decisivo per la lotta egemonica: lo si può fare solo se, tra l’altro, non ci si ritrae di fronte al linguaggio populista dei nuovi conflitti. E se si trovano figure unificanti che, pur radicate in una analisi di classe, sappiano rivolgersi ai diversi soggetti sociali ed alle diverse forme di vita degli stessi “proletari”. In questo quadro diviene opportuno parlare di sovranità popolare e nazionale, come collante di un nuovo blocco sociale e base di una nuova politica.
Sovranità nazionale non è nazionalismo. E’ ridiscutere democraticamente quale sia lo spazio sovranazionale in cui il Paese di deve in ogni caso far parte. Qui si fa sentire un altro degli effetti della crisi: la progressiva dissoluzione dello spazio “globale” ed “europeo” nel quale eravamo soliti muoverci. Il multipolarismo è, in questo senso, uno spazio più favorevole della (presunta e parziale) globalizzazione, perché è l’unica griglia che possa sottoporre a controllo i flussi altrimenti devastanti dei capitali transnazionali. E non è più possibile trasformare l’Unione Europea in qualcosa di più paritario, cooperativo, democratico: è piuttosto necessario iniziare da subito a definire e costruire uno spazio mediterraneo-mediorientale in cui inserire il nostro Paese, prima come prospettiva da far balenare nelle trattative comunitarie, poi come concreta alternativa all’Unione monetarista.
Infine se la crisi è davvero crisi di un intero modo di produzione e dei rapporti sociali e geopolitici che lo sostengono, la si può attraversare solo avendo un modello alternativo forte, che non può ridursi alla sola economia decentrata, sociale e cooperativa. Bisogna quindi ritrasformare il nostro comunismo da ideale ad idea, da lontano orizzonte a forma realisticamente possibile di una nuova produzione e di un nuovo Stato. Bisogna dunque pensare da subito ad un concreto socialismo, basato sull’intreccio tra proprietà pubblica, sociale e privata, gestito da uno Stato rinnovato, controllato da autonome istituzioni popolari. E quindi (ulteriore e forse più importante lezione della crisi) bisogna tornare a considerare la conquista-trasformazione del potere di Stato (non a caso confiscato in questi anni dai capitalisti, mentre noi si chiacchierava di “autonomia del sociale”) come uno snodo senz’altro non sufficiente, ma comunque assolutamente necessario di qualunque strategia popolare.
Di queste cose si parla nelle note che seguono.
1.1. Conflitti anomali
La crisi ha inaugurato, o portato alla massima evidenza, quello che propongo di chiamare “capitalismo a somma zero”. Se in precedenza, ed anche negli anni della crescita drogata, al massiccio aumento della ricchezza dei capitalisti corrispondeva un ben minore, ma comunque sensibile, aumento della ricchezza (reale o apparente) dei lavoratori, oggi avviene il contrario: il capitalismo sopravvive grazie all’incrudimento del tradizionale sfruttamento di classe e grazie all’espropriazione diretta delle risorse pubbliche e di ciò che prima spettava al lavoro (pensioni, servizi, beni comuni, ecc.). Oggi è sempre più chiaro che ciò che gli uni acquisiscono gli altri perdono: da ciò lo scatenarsi di numerosi e diversificati conflitti. Ma si tratta di conflitti ben diversi da quelli a cui eravamo abituati: alla lotta “ordinata” dei lavoratori sindacalizzati, delle associazioni civili e delle stesse aggregazioni reticolari dei lavoratori precari (più fluttuanti e instabili, ma pur sempre “disciplinate” in un quadro ideologico relativamente chiaro ed identificabile), si affiancano lotte di gruppi mai mobilitatisi prima d’ora o costretti a constatare l’inefficacia delle precedenti mobilitazioni: da ciò il carattere quasi sempre informe e spurio di queste lotte
E’ bene dirsi con chiarezza che nessuna delle attuali forze della sinistra sociale e politica possiede al momento gli strumenti per comprendere queste lotte e per intervenirvi. Eravamo abituati alle lotte per il welfare, gestite dal nesso sindacato/partito/Stato. Queste sono poi state integrate o sostituite da lotte che andavano oltre il welfare e oltre la figura centrale dello stato sociale (il lavoratore stabile, maschio, adulto e sindacalizzato), ed erano gestite da associazioni orientate a culture dette postmaterialiste (femminismo, ambientalismo, diritti civili, pacifismo), ma comunque dotate di una solida tradizione culturale e passibili, pur non senza contrasti, di integrazione con l’ideologia della sinistra. Oggi siamo di fronte a lotte senza il welfare, prive, cioè, degli usuali canali di espressione politica e di trasmissione istituzionale: lotte dagli obiettivi troppo ristretti o troppo generici, dall’ideologia incerta, aperte a diverse declinazioni politiche o impolitiche. E’ illusorio tentare di ridurre l’ultimo, incerto “modello” a quelli precedenti. Per lungo tempo i tre modelli saranno compresenti e contrastanti: potranno essere unificati solo da un modello superiore. Soprattutto, è un grave errore prendere le distanze dalle ultime lotte tacciandole di populismo: nelle attuali condizioni è quasi inevitabile che le nuove mobilitazioni assumano un carattere populista, e fuggire il populismo significherebbe rifiutare di radicarsi nella realtà delle espressioni di massa. Bisogna starci dentro, comprenderle, distanziarsene, se necessario, solo dopo che si è fatto di tutto per trasformarle.
1. 2. Questioni di classe
Un ipotetico “fronte” dei lavoratori dovrebbe unificare figure notevolmente diverse.
Le principali linee di divisione corrono tra stabili e precari, qualificati e dequalificati, uomini e donne, dipendenti, semiautonomi e autonomi, autonomi che servono imprese e autonomi che servono consumatori individuali. Gli intrecci tra queste diverse divisioni possono dar luogo a numerose combinazioni. Tutti questi lavoratori hanno di certo un avversario in comune: tutti sono infatti soggetti ad un processo di proletarizzazione, gestito dall’insieme del capitalismo italiano, che si traduce nella perdita di garanzie per gli occupati stabili, nella diminuzione delle prospettive dei precari, nella crescente sottomissione alle imprese committenti degli autonomi di seconda generazione, nel rapido declassamento degli autonomi di prima generazione. Al momento, però, tutti costoro (salvo poche e fluttuanti eccezioni) sono purtroppo alleati a questa o quella frazione delle classi dominanti. Una parte rilevante lavoratori sindacalizzati (soprattutto quelli pubblici) ed una parte rilevante dei precari o autonomi ad alta o media qualificazione (e, tra questi, soprattutto quelli addetti ai servizi alle imprese, che hanno più difficoltà ad evadere il fisco) sono di fatto alleate alla parte “forte”, europeista e mondialista del nostro capitalismo, nell’illusione che questa possa comunque consentire, oggi o domani, un nuovo sviluppo. Gli altri, molti dipendenti e precari dequalificati, disoccupati, lavoratori autonomi “tradizionali”, sono alleati alla parte “debole” e sedicente “nazionale” o regionalista (quando non ne sono elemento subordinato interno), perché più permeabili al discorso populista, più carenti di strutture di protezione, più propensi all’evasione fiscale.
Date queste differenze, la costruzione di un blocco sociale che comprenda tutte le figure del lavoro oggi subalterno non può essere l’effetto di un progetto sindacale (anche se “one big union” capace di comprendere tutti è in futuro possibile) ma solo di un progetto politico di alto profilo che, partendo dal fatto che nessuna delle frazioni della classe dominante è in grado di assicurare un futuro, si presenti espressamente come rottura delle diverse alleanze subalterne con la classe dominante e come efficace riduzione del potere di queste ultime. Infatti, tutte le diverse proposte di uscita “a sinistra” dalla crisi (beni comuni, reddito di cittadinanza, rilancio della domanda di beni di consumo, politica industriale e via elencando) non hanno alcun senso se si concepiscono e si presentano come semplici alternative di politica economica e non, piuttosto, come causa ed effetto di una trasformazione dei rapporti sociali, di un’ alleanza delle diverse frazioni di una classe contro le diverse frazioni dell’altra, al fine di ridurre il potere dei dominanti.
1.3. Espropriare gli espropriatori
Nessuno stabile sviluppo è possibile in Italia senza un pesante ritorno dell’intervento pubblico nell’economia e senza un immediato controllo democratico e popolare di questo intervento. Nulla di serio si può fare senza la sostituzione dell’attuale intreccio putrescente fra Stato ed interessi privati (nel quale naufragano anche molti gruppi della “società civile”) con la distinzione tra uno Stato autorevole (capace di riprendere la propria funzione di indirizzo e redistribuzione) e una società indipendente (fatta di associazioni capaci di controllare, criticare e all’occorrenza sostituire i gruppi dirigenti dello Stato). Ma tutto questo comporta necessariamente l’espropriazione (e comunque la drastica riduzione del potere) di quei gruppi privati a cui sono state svendute industrie e banche pubbliche, e che saccheggiano le amministrazioni centrali e periferiche con la spregiudicata gestione di appalti e concessioni. Parlare di nuova politica economica senza parlare di questo è illudere sé stessi e gli altri. Questa è la precondizione per un programma popolare che usi le risorse così ottenute per una politica programmata di innovazione, di ricostruzione sociale ed ambientale, di sostegno all’aggregazione delle piccole ed al dinamismo delle medie imprese e, anche per questa via, alla domanda di beni di consumo. Solo un programma del genere può unire i “piccoli” contro i “grandi” e contemporaneamente affrontare i problemi fondamentali del Paese.
1.4 Sovranità popolare (e nazionale) vs populismo
Un simile programma può essere attuato solo da un forte governo popolare. Per accumulare le forze necessarie a costituire un tale governo è necessario iniziare a superare fin da ora la divisione fra i diversi gruppi di lavoratori. Tali divisioni sono di ordine sia materiale che simbolico e riguardano essenzialmente la questione fiscale, le forme di organizzazione e le forme di autorappresentazione ideologica.
Puntando tutto su una generica lotta all’evasione i lavoratori sindacalizzati e quelli comunque “colti” appoggiano di fatto il progetto del capitalismo “forte” che intende stringere il cappio attorno ai piccoli evasori nella consapevolezza che le grandi imprese internazionalizzate possono facilmente giovarsi dei meccanismi di elusione. Pur sapendo che l’elusione fiscale delle grandi imprese potrà essere ostacolata solo dal loro passaggio nelle mani pubbliche, bisogna sin da ora presentare programmi fiscali che concentrino le politiche di recupero sulle ricchezze patrimoniali di ordine superiore (l’assenza di uno straccio di imposta patrimoniale grida vendetta), mentre aumentano gli sgravi alle piccole imprese (e soprattutto a quelle individuali) e riducono le sanzioni contro la piccola evasione. Questo è il perno di una politica di riconquista di risorse da parte dei ceti popolari (fatta anche di cancellazione delle grandi opere, delle spese militari, della privatizzazione dei beni comuni) che serva ad unire questi ceti, evitando con estrema cura di costringere il piccolo evasore ad allearsi col grande.
Nell’emersione dei nuovi conflitti la partita dell’egemonia si gioca, oltre che sulla questione dei programmi, sulla capacità di essere i primi a proporre forme di organizzazione efficace. Il modo in cui questo conflitti vengono organizzati oggi condizionerà in maniera decisiva il modo in cui si svilupperanno domani, entrerà a far parte del DNA di un intero movimento popolare. Vanno certamente tentate modalità organizzative di tipo sindacale. Ma l’iniziale eterogeneità delle figure e degli obiettivi suggerisce piuttosto, come modello organizzativo di base, i comitati popolari contro la crisi. Tali comitati possono sorgere ex novo, o possono appoggiarsi a precedenti strutture sindacali e partitiche, ma devono in ogni caso sia accogliere l’eterogeneità attraverso il massimo ricorso alla democrazia interna, sia superarla attraverso il mutualismo e la costruzione di una ideologia unificante.
Tale ideologia non può essere l’ideologia classista a cui siamo abituati, e nemmeno può nascere dall’integrazione tra classismo e associazionismo civile che è stata tentata dal movimento altermondialista, ma non è penetrata nella grande massa dei ceti subalterni. Deve piuttosto essere un’ideologia popolare, dove “popolo” indica tutti coloro che lottano non contro la libertà altrui, ma per la propria libertà e dignità (Machiavelli), tutti coloro che rivendicano dignità e libertà non contro altri segmenti del popolo (come vorrebbe il populismo), ma solo contro i potenti. “Popolo”, oggi, può raccogliere ed unire più di “classe”: perché non è solo la classe a mobilitarsi, perché molti segmenti crescenti della classe si concepiscono più come popolo che come lavoratori organizzati, e soprattutto perché anche la mobilitazione di classe, per porsi all’altezza di uno scontro che ribalta la costituzione formale e materiale del Paese, deve presentarsi come rivendicazione della sovranità popolare. Non si tema di perdere, con questo spostamento lessicale, la capacità di nominare e contrastare il capitalismo, anzi. In alcune fasi storiche, come nella seconda metà del XX secolo, lottare come classe significava immediatamente opporre un'altra economia politica all’economia politica dominante. In altre fasi, però, lottare come classe può significare allearsi coi propri padroni, su base aziendale o regionale, contro altri padroni e altri segmenti del proletariato: ed è anche a causa di questa tendenza subalterna del comportamento di classe che Marx ha potuto affermare che, lottando per abolire il capitalismo, il proletariato abolisce sé stesso in quanto classe.
Per lottare contro lo strapotere del capitalismo odierno non si può far affidamento solo sull’iniziativa di lavoratori strutturalmente indeboliti, e si devono piuttosto mobilitare tutte le risorse politiche, giuridiche ed istituzionali che hanno in passato arginato il capitalismo stesso. Il “riassunto ideologico” dell’epoca attuale, la chiave per aggregare strati sempre più vasti di cittadini, deve essere quindi la lotta per la sovranità popolare. E ciò implica immediatamente la lotta per la sovranità nazionale. Sovranità popolare non significa dittatura della maggioranza e rottura dello Stato costituzionale di diritto (come, di nuovo, vorrebbe il populismo), ma sottrazione del potere di decidere alle oligarchie finanziarie (Ferrajoli). Sovranità nazionale non significa affatto nazionalismo, ma difesa di uno spazio in cui sia possibile assumere decisioni democratiche e quindi ridiscutere liberamente il modo in cui si intende essere partecipi di uno spazio sovranazionale. Ma poiché a parlar di nazione subito si affacciano pericolosi equivoci, che vanno dal neofascismo alle sciocchezze “rossobrune” e da queste ai più immediatamente pericolosi governi di unità nazionale per la salvezza della Patria e la dannazione dei lavoratori, converrà, su questo punto, essere più precisi.
2.1. Multipolarismo
Dobbiamo abbandonare decisamente l’idea della “globalizzazione dal basso”, ossia l’illusione che la globalizzazione possa essere democratizzata. Il movimento antagonista deve continuare a costituirsi globalmente, ma la sua politica non può più essere globalista. Infatti la globalizzazione è essenzialmente liberalizzazione completa dei movimenti del capitale, e questa crea un continuo dumping sociale che distrugge l’organizzazione dei lavoratori e dei cittadini e dunque rende impossibile la democrazia. Volere la globalizzazione democratica è come volere il capitalismo democratico, ossia qualcosa che era assai difficile ottenere nell’epoca del capitalismo nazionale e del patto socialdemocratico, e che diventa impossibile ottenere adesso, nell’epoca del capitalismo “assoluto” e “senza compromessi”, assoluto perché globalizzato. L’unica strada per tentare la costruzione di un ordine economico politico cooperativo e pacifico è il multipolarismo, ossia la creazione di vaste regioni economico-politiche che non eliminino i flussi di capitale ma li sottopongano a vincoli e a contrattazioni di tipo politico, rendendo così possibili al proprio interno scelte pro labour. E’ una via irta di rischi: protezionismi, guerre (che peraltro sono il leit motiv della globalizzazione). Ma è l’unica condizione che possa assicurare gli equilibri necessari alla creazione di una moneta comune che non sia strumento dell’egemonia di un polo (come avviene col dollaro) ed alla costruzione di un effettivo diritto internazionale (Ferrajoli) che non si limiti ad assicurare il libero movimento del capitale e a giustificare tutte le più infami guerre.
Per ridurre i rischi e favorire le possibilità positive del multipolarismo, il movimento antagonista, reso più forte dalla possibilità di crescere, in ciascuna regione, al riparo dalla violenza dei flussi di capitale incontrollati, deve però continuare ad esprimere la propria vocazione globale, ed anzi la deve rendere più forte concretizzandola con la costruzione di una V Internazionale (Samir Amin), più vicina al pluralismo della I che al centralismo della III, ma capace di darsi quegli obiettivi politici unitari che il Forum Sociale Mondiale non vuole e non può darsi.
2.2. Oltre l’Europa
L’Unione Europea, come progetto realmente unitario e unificante, è finita. Nel futuro avremo l’Europa “a due velocità”, o l’esplosione dell’Unione. Ciò equivale a dire che i PIIGS saranno condannati ad una lunga recessione ed alla definitiva integrazione subalterna nelle economie “forti”, e che i cittadini di tutto il continente saranno condannati a pagare un modello fondato sulle esportazioni. In queste condizioni l’ “altra Europa”, l’Europa “sociale”, costruita “dal basso” è una pura illusione: è impedita dalla struttura istituzionale dell’Unione, dalla cultura delle sue burocrazie, dall’orientamento delle classi dominanti delle nazioni più forti, dall’inesistenza di una realistica alternativa socialdemocratica, dall’inesistenza di un efficace movimento popolare continentale, reso ancor più difficile dalle prospettive di recessione. Dobbiamo dunque uscire dall’Europa? No, o comunque non subito. Dobbiamo però uscire dall’ ”europeismo senza condizioni” che ci accomuna all’ideologia ed alla politica delle frazioni “forti” del capitalismo italiano. Queste frazioni hanno scelto decisamente l’Europa, costi quel che costi, essenzialmente perché essa consente loro di operare, grazie alla coercizione del “vincolo esterno”, quelle politiche antipopolari rese altrimenti impossibili dal loro storico difetto di egemonia: il governo Monti è la massima espressione di questa strategia.
Anche noi abbiamo scelto l’Europa, ragionevolmente convinti che un progetto di tipo socialista fosse possibile solo in un ambito sovranazionale. La convinzione era giusta, ma l’ambito scelto no: continuare ciononostante ad insistere sull’ “altra Europa” equivale, in questa situazione, ad aderire all’ “europeismo senza condizioni”. Dobbiamo quindi puntare su una soluzione nazionalista? No. Il nazionalismo non è sempre e comunque un male. Quando serve a reprimere la lotta di classe interna sviandola nella lotta contro presunti nemici esterni è un male. Ma quando la repressione della lotta di classe avviene attraverso una particolare forma di internazionalizzazione, il nazionalismo può essere, momentaneamente, una parte della risposta: tutte le più importanti esperienze progressive di questi anni hanno una qualche componente nazionalista, quando non indigenista-comunitarista (Venezuela, Colombia, in parte lo stesso Brasile). Ma il nazionalismo non è una risposta valida per l’Italia, sia per la cultura fortunatamente antisciovinista del Paese sia, e soprattutto, per la sua struttura economica: ogni pur parziale politica nazionalista deve essere infatti compensata dall’esportazione di una qualche risorsa peculiare del Paese, particolarmente richiesta dal mercato mondiale, come l’energia (Venezuela, Colombia) o i prodotti agricoli (Argentina), ma di tali risorse noi siamo privi. Che fare, dunque? La nostra unica speranza, che peraltro si riallaccia a storiche tendenze del Paese, sta nella creazione di un nuovo spazio sovranazionale, centrato sul mediterraneo, aperto alle dinamiche progressive del nordafrica e del medioriente e ponte verso l’Asia e la Cina. Uno spazio estremamente ricco di capitali, di lavoro, di energia, il cui sviluppo sarebbe anche condizione per la rinascita del nostro Mezzogiorno, e quindi del Paese intero. La costruzione di questo spazio (che può avere diverse varianti – si vedano al proposito le tesi di Bruno Amoroso o di Luciano Vasapollo – e che deve essere iniziata da subito, anche dall’opposizione) deve essere giocata in un primo momento all’interno delle dinamiche europee, come elemento che aumenti il nostro potere di negoziazione, ma deve essere vista, in prospettiva non remota, come alternativa all’Unione Europea ed alla sua deriva monetarista e recessiva.
2.3. Dignità del lavoro, dignità del Paese
Non dobbiamo, dunque, essere nazionalisti. Eppure dobbiamo reinserire nel nostro lessico la “nazione” come categoria economica, politica ed ideologica. Non la nazione come etnia, come deposito di una storia o come comunità linguistica, ma la nazione come spazio di diritti, come luogo di possibile decisione democratica di contro alla chiusura tecnocratico-capitalistica degli spazi sovranazionali. La nazione come punto di partenza di una politica e di una dimensione sovranazionale alternativa, e non come punto di arrivo di una illusoria autarchia.
Come notava Gramsci, non è detto che una forma storicamente superiore di Stato, più conforme all’evoluzione economica mondiale, sia necessariamente positiva anche per i lavoratori, e quindi non è detto che ogni passo indietro rispetto a quella forma sia necessariamente reazionario. Non è detto che la globalizzazione e l’Unione Europea, astrattamente progressive rispetto alla nazione ed al nazionalismo, siano progressive anche concretamente: ed in realtà mostrano di essere regressive. Lo spazio nazionale può dunque momentaneamente tornare ad essere progressivo, ma a due condizioni: 1) che sia definito a partire dagli interessi popolari e 2) che si apra immediatamente ad una forma di cooperazione sovranazionale, costituendo una delle aree regionali dell’equilibrio multipolare.
Dobbiamo quindi prendere le mosse dagli interessi del blocco sociale a cui ci riferiamo, e subito dopo trovare il punto di intersezione fra questi interessi ed i problemi oggettivi del Paese (quelli, per intenderci, che ogni classe che voglia divenire egemone deve, a suo modo, risolvere). Gli interessi popolari si riassumono sostanzialmente, oggi, nella riconquista della dignità del lavoro (nuova e stabile occupazione, riconoscimento del ruolo centrale del lavoro nel processo produttivo), in un mutamento della struttura dei consumi che punti a soddisfare i bisogni essenziali, in una tutela generale dell’ambiente naturale e sociale. I problemi oggettivi del Paese si riassumono nella necessità di operare un salto verso l’economia della conoscenza e di inserirsi in uno spazio sovranazionale paritario che consenta una relativa sicurezza energetica, un interscambio di lavoratori, merci e capitali, una salvaguardia della pace. Ebbene, le classi attualmente dominanti non sono in grado di affrontare seriamente i problemi nazionali perché i capitalisti che si sono appropriati delle aziende e delle banche pubbliche (che erano ormai degenerate, ma costituivano pur sempre un potenziale volano economico ed innovativo) preferiscono l’arricchimento patrimoniale all’investimento produttivo, gestiscono le imprese con capitali esigui, sufficienti a controllarle, ma non a svilupparle (fatte le debite proporzioni, il “nanismo” industriale è malattia non solo delle piccole imprese, ma anche di quelle grandi), e perciò, quando investono in produzione e non in speculazione, preferiscono la facile via del supersfruttamento del lavoro dell’ ambiente e della ricchezza pubblica a quella più onerosa dell’innovazione e del rischio imprenditoriale. Inoltre, tutto ciò si traduce in una gracile egemonia sociale, che cerca sostituti o nel vincolo esterno europeo, o nel lassismo fiscale, nelle immaginarie comunità regionali, o in uno pseudonazionalismo che si trasforma rapidamente in servilismo ad ogni seria crisi internazionale. Il governo Monti, divenuti momentaneamente inservibili in nazionalismo berlusconiano ed il regionalismo, esercita chiaramente un’egemonia per vincolo esterno e ne approfitta per proseguire nella via maestra del capitalismo italiano, liberalizzando davvero solo il mercato del lavoro, i servizi pubblici e (meno) qualche ordine professionale e qualche area residuale, lasciando per il resto sostanzialmente intatte qualche le concentrazioni di potere industriale e finanziario. Una via maestra che riproduce le condizioni che impediscono l’innovazione: le odiose tirate contro il “posto fisso” occultano il fatto che l’innovazione richiede rapporti stabili tra lavoro ed impresa, “fidelizzazione” del lavoratore come condizione di una lettura coerente del processo di lavoro, delle trasformazioni necessarie, della loro implementazione. E’ solo un esempio, ma è il più importante: la dignità del lavoro è condizione della dignità del Paese perché l’innovazione è essenzialmente effetto di un clima sociale realmente cooperativo; l’innovazione sociale, insomma, è condizione dell’innovazione tecnologica. Inoltre, la sostituzione, nei settori strategici, dell’intervento pubblico a quello privato non è solo sostegno all’occupazione, ma superamento della scarsità di capitali che impedisce l’innovazione stessa. E infine, la dignità del lavoro coincide con la dignità del Paese perché impone la ricerca di uno spazio sovranazionale cooperativo che superi l’attuale subalternità italiana.
E’ in tal modo che un programma popolare diviene programma nazionale (nazionale perché popolare – Gramsci), diviene nuova politica internazionale e aumenta, anche per questa via, la propria capacità di egemonia all’interno del Paese stesso.
Un programma popolare e nazionale può radicarsi stabilmente all’interno di una determinata formazione territoriale solo se prende le mosse da un’analisi delle classi e del loro rapporto con le dinamiche internazionali. Ed è quanto abbiamo cercato di tratteggiare in queste note. Ma tutto ciò non basta. In situazioni di crisi epocale, come quella che stiamo vivendo, si confrontano e si confronteranno ancor di più, sulla scena globale, diversi possibili modelli di soluzione della crisi stessa. Noi dobbiamo avere un nostro modello alternativo, per non restare prigionieri di quelli altrui. Dobbiamo insomma avere una più precisa e concreta idea di quel comunismo e di quel socialismo di cui sempre parliamo e di come la loro pur parziale realizzazione si intrecci con i conflitti mondiali. Senza questa idea non saranno possibili né programmi di fase né programmi immediati, e la stessa prospettiva popolare e nazionale si troverà sguarnita di fronte alle evoluzioni ed alle precipitazioni della crisi. Dobbiamo avere, insomma, un chiaro obiettivo storico, ed organizzare le nostre forze e la nostra politica in relazione ad un tale obiettivo. Propongo, in conclusione, alcune prime riflessioni su questo punto.
3.1 Crisi, capitalismo di Stato, socialismo
Il nostro obiettivo storico deve tornare ad essere il comunismo. E poiché quest’ultimo può esistere solo come combinazione concreta di produzione sociale e privata, di democrazia autorganizzata e rappresentativa, di società autogovernata e di Stato costituzionale di diritto, è al socialismo che dobbiamo puntare come forma effettiva di realizzazione della tendenza comunista. Di fronte alla crisi non basta, infatti, rivendicare diritti, democrazia, politiche economiche progressive. La crisi non dipende solo dalla finanza, ma anche da una struttura proprietaria delle imprese; non deriva solo dal deficit di domanda “popolare”, ma anche dalla diminuzione degli investimenti industriali, sempre meno profittevoli, nonostante la continua compressione del lavoro, dato l’alto costo dell’innovazione, della ricerca e della commercializzazione. Solo rastrellando la maggior massa possibile di ricchezza sociale il capitalismo può uscire da quest’ultima, cruciale, difficoltà. L’ha fatto con l’intervento degli “investitori istituzionali” (fondi pensione, ecc.), ma questi hanno piegato le imprese alla logica del ritorno immediato per gli azionisti, in spregio di qualunque logica produttiva. L’ha fatto con la creazione di capitale fittizio (di “denaro privato”) attraverso la finanziarizzazione, e si è visto come è andata a finire. Ora lo fa, e lo farà sempre di più in futuro, ricorrendo direttamente allo Stato, per creare moneta, per drenare ricchezza popolare (la c.d. crisi del debito pubblico e le conseguenti misure recessive), per salvare e gestire le imprese che richiedono maggiore capitale e così orientare l’intera produzione. Questo aperto ricorso allo Stato, dopo decenni di ricorso occulto alla mano pubblica, è il riconoscimento de facto della giustezza della previsione di Marx: ad un certo punto la produzione diviene talmente socializzata da non poter più essere gestita dal singolo capitale e da richiederne l’assunzione diretta da parte della società stessa. Solo che, in assenza di un movimento socialista internazionale, questo riconoscimento avviene in forma capitalistica, e si presenta come un colossale spostamento di reddito dai cittadini al capitale, come completo soggiogamento dello Stato al capitale stesso, o come creazione di una burocrazia statale che assume in prima persona il compito della valorizzazione capitalistica. Socialismo per i padroni, mercato per i lavoratori! : questa è la parola d’ordine del nuovo capitalismo di Stato.
A noi tocca invece iniziare e condurre con decisione la battaglia per far sì che tutto ciò che funziona grazie alle risorse sociali venga proporzionalmente gestito dalla società stessa, si trasformi in proprietà pubblica, sociale e comune attraverso lo spossessamento dei capitalisti. Questo, e niente di meno.
Non basta rivendicare i beni comuni se non si comprende che il capitale stesso è un bene comune in quanto prodotto sociale, ed è quindi giusto riappropriarsene. Non basta rivendicare l’economia sociale e cooperativa, se questa lascia intatte le grandi imprese e la loro logica. Non serve la retorica della lotta sociale, l’autocelebrazione delle capacità creative della cooperazione, della moltitudine, del lavoro, se il lavoro vivo non si riappropria di quel lavoro morto (macchinari, strutture organizzative, denaro: ossia imprese e banche), che pur essendo un suo prodotto, continua ad ergersi contro il lavoro stesso come una potenza estranea ed ostile (Marx). Nessun errore sarebbe più grave, di fronte al ritorno del capitalismo di Stato, del reagire con la solita contrapposizione tra Stato e società, rifugiandosi nella seconda per tentare di “condizionare” il primo.
3.2 Importanza dello Stato
Lo Stato contemporaneo è un insieme di istituzioni pubbliche e private, nazionali, sovranazionali e regionali che, attraverso norme legali o regole pattizie stabilite tra organizzazioni private aventi funzioni pubbliche, assicura una relativa continuità alla riproduzione di determinati rapporti sociali. Questa dispersione, questo polimorfismo dello Stato ha fatto risorgere tra di noi l’idea che lo Stato sia irrilevante, o non esista più, o (in singolare coincidenza col liberismo radicale) che in ogni caso non dovrebbe più esistere. La crisi, conviene ripeterlo, ha tolto ogni credibilità a queste tesi. Nelle fasi ascendenti si può delegare alle strutture sovranazionali una buona parte delle decisioni, anche per allontanare l’attenzione dai luoghi fondamentali della politica. Ma quando il gioco si fa duro, le cose cambiano, e molto. Nel momento decisivo della crisi stessa gli apparati pubblici nazionali sono tornati ad essere il perno dello Stato intero e della stessa economia, in quanto primi depositari della possibilità di battere moneta socialmente validata (mentre la gran massa della moneta “privata” – titoli, derivati, ecc. – mostrava d’essere carta straccia o puro segno elettronico) e di drenare risorse spostandole massicciamente da una classe all’altra. Senza il loro saldo potere sui governi nazionali, pazientemente costruito mentre noi teorizzavamo l’irrilevanza del “politico”, le stesse classi capitalistiche transnazionali non sarebbero riuscite ad operare quel colossale spostamento di reddito dal lavoro al capitale (salvataggi bancari, emissioni di moneta a debito ripagate con tagli al welfare) che ha loro consentito di sopravvivere e addirittura di costituire concentrazioni di capitale più forti di quelle sono state concausa della crisi. Se ne deve dedurre che senza condizionare, influenzare, conquistare e trasformare il potere dei governi nazionali (come premessa della presa e trasformazione degli apparati statali in generale) le classi subalterne resteranno per sempre tali. Il che comporta (oltre alla consapevolezza che si tratterebbe comunque solo di una parte della trasformazione necessaria) che la politica delle classi subalterne non può consistere solo nella crescita progressiva della democrazia sociale e delle sue istituzioni autorganizzate, ma deve tornare ad essere anche azione coordinata per spostare, in congiunture determinate, i rapporti di forza tra le classi al fine di conquistare i diversi “pezzi” di Stato di volta in volta decisivi, ed in particolare i governi nazionali (Lenin). Chi, ciononostante, continua ad insistere sull’autonomia del sociale, dimentica che l’idea stessa (e la pratica) di autonomia del sociale, nelle sue forme contemporanee, nasce proprio come effetto paradossale dell’espansione del Big Government: solo sulla base della sicurezza e delle risorse fornite dallo Stato la società ha potuto in molti casi “far da sé”. Ed è proprio perché le erogazioni del welfare erano da tempo garantite, tanto da sembrare ovvie e addirittura “naturali”, che la società ha potuto pensare, ad un certo punto, di essere del tutto autonoma dallo Stato e di poter sussistere senza l’ausilio di politiche pubbliche, dunque autoritative, di redistribuzione. Ma quando queste politiche cessano, ed anzi assumono segno inverso, si vede chiaramente che senza una trasformazione diretta dell’orientamento dello Stato le organizzazioni sociali sono condannate ad un semplice ruolo di resistenza. Un ruolo comunque importantissimo, certo: non solo perché senza resistenza non c’è controffensiva, ma perché è pur sempre fuori dallo Stato, e quindi nelle autonome istituzioni sociali, che deve e può costituirsi un soggetto antagonista, ossia capace di elaborare ed in parte sperimentare rapporti sociali alternativi. Fuori dallo Stato oggi (perché è Stato capitalistico) e domani (perché anche uno Stato socialista, pur democratizzato, tenderebbe inevitabilmente a riprodurre relazioni gerarchiche): ma fuori dallo Stato per accumulare le forze ed il sapere necessari a conquistare e trasformare lo Stato stesso, rimanendone pur sempre distinti. Il nostro “comunismo di società” quindi, pur facendo sempre perno sull’autonomia delle istituzioni di movimento, non può limitarsi ad essere un pensiero del “non-Stato” e deve divenire anche pensiero del nuovo Stato, ossia della nuova combinazione di organi, pubblici e no, capaci di assicurare continuità (Gramsci) alla nuova forma di riproduzione sociale.
3.3 Programmi per il tempo breve, medio e lungo
Posso ora riassumere il senso del mio ragionamento.
Come parte potenziale di una V Internazionale tutta da costruire, il movimento comunista italiano (e con esso tutta la residua sinistra) deve battersi per un programma immediato di ricostruzione di un blocco sociale anticapitalista, per un programma intermedio di governo popolare, e in prospettiva per un programma socialista.
Nella cornice della rivendicazione della sovranità popolare e nazionale, il programma immediato punta a rompere l’alleanza subalterna delle diverse frazioni popolari con le diverse frazioni capitaliste. Lo fa proponendo una forte redistribuzione del reddito dall’alto in basso, con particolare attenzione a non colpire ulteriormente le categorie intermedie in via di proletarizzazione, che sono la vera posta in gioco di una lotta per l’egemonia. Lo fa iniziando a costruire autonome istituzioni di movimento in cui si unifichino i diversi strati popolari. E proponendo un ripudio delle politiche europee, un nuovo spazio sovranazionale per il Paese, un immediato “piano del lavoro” per la manutenzione del nostro paesaggio ambientale e sociale e per le connesse innovazioni.
Il programma di un governo popolare, la cui possibilità dipende dalla creazione del blocco antagonista e dall’acutizzarsi della crisi d’egemonia del capitalismo italiano ed europeo, inizia a modificare la struttura della produzione, soprattutto grazie ad una parziale espropriazione delle grandi concentrazioni capitaliste ed all’intervento diretto ed indiretto dello Stato, sottoposto a tutte le forme possibili di controllo dal basso ed integrato all’economia sociale e cooperativa. Sulla base di questa modifica trova le risorse per rilanciare innovazione, occupazione e domanda interna. Contemporaneamente lavora in concreto per un nuovo spazio sovranazionale, negoziando duramente con l’Unione Europea e preparando un’alternativa ad essa.
Un simile governo popolare non può far altro, in una prima fase, che dar vita ad un capitalismo di Stato democratico, che, pur rafforzando la posizione dei cittadini e dei lavoratori, non riuscirà a modificare che parzialmente il fine generale delle imprese (ossia la spinta alla massima valorizzazione possibile), la forma salariata del lavoro, la forte diffusione della proprietà privata anche oltre i settori in cui essa è comunque opportuna. Esso deve essere quindi considerato come un momento di accumulazione delle forze per un salto ulteriore, i cui tempi e le cui forme non possono essere predeterminati, ma che l’evolversi della crisi mondiale potrebbe rendere necessario, oltre che possibile. La sua evoluzione verso il socialismo potrà essere misurata, oltre che dalla capacità di espropriare gli espropriatori aumentando, e non riducendo, democrazia e pluralismo, dalla risposta alle seguenti sfide: riduzione della spinta alla massima valorizzazione del capitale, possibile solo in uno spazio multipolare che freni la mobilità del capitale stesso; riduzione della dipendenza dei cittadini dal lavoro salariato, attraverso la riduzione del tempo di lavoro subalterno, l’aumento del tempo di lavoro sociale gratuito e la conseguente fruizione gratuita di beni e servizi; sviluppo di un apparato amministrativo dialogico, la cui azione sia basata sul principio del coinvolgimento obbligatorio dei soggetti sociali nella definizione delle politiche che li riguardano; crescita di istituzioni popolari, dotate di capacità e potere di controllo sulle imprese e sullo Stato, ma necessariamente autonome dallo Stato in quanto fonte continua di rinnovamento dei gruppi dirigenti, strumento di contrasto alle inefficienze ed alle involuzioni oligarchiche e burocratiche dello Stato stesso; elaborazione statuale e sociale di una economia programmata che orienti l’innovazione non verso la continua creazione di beni di consumo, ma verso tecnologie di gestione razionale delle risorse, delle energie, dell’ambiente sociale e naturale (tecnologie che diverranno in futuro decisive anche nel mercato mondiale) .
Si può certamente avere un’altra idea di socialismo ed un'altra idea di società. Ma chiunque voglia affrontare la crisi per quello che essa effettivamente è deve proporre comunque una visione forte del futuro, l’idea di una nuova situazione per la quale lottare. Solo così un partito comunista potrà tornare ad essere qualcosa di più del ricettacolo di differenti famiglie politiche, del vessillifero di qualche generoso e confuso ideale, e potrà tornare ad essere un’idea che diviene organizzazione, e quindi senso comune.
L’inefficacia di quel modello è evidente in primo luogo riguardo al populismo. La mobilitazione democratica delle associazioni altruistiche non è in grado di intercettare problemi, umori e linguaggi della parte più deprivata delle classi subalterne. Questa parte, fatta di lavoratori dipendenti a bassa qualificazione, di autonomi che sono in realtà più dipendenti dei primi (si pensi al lavoro dell’autotrasportatore, strettamente legato – a rischio della vita – ai tempi dell’impresa) e di ceto medio fortemente impoverito dalla crisi generale, si allea ad alcune frazioni, meno forti, della borghesia anche perché l’altra parte del popolo, quella composta di dipendenti ed autonomi ad alta qualificazione, si allea di fatto alla frazione forte, globalista ed europeista del nostro capitalismo. Rompere queste alleanze, e costruirne una, nuova, tra le diverse frazioni popolari, è decisivo per la lotta egemonica: lo si può fare solo se, tra l’altro, non ci si ritrae di fronte al linguaggio populista dei nuovi conflitti. E se si trovano figure unificanti che, pur radicate in una analisi di classe, sappiano rivolgersi ai diversi soggetti sociali ed alle diverse forme di vita degli stessi “proletari”. In questo quadro diviene opportuno parlare di sovranità popolare e nazionale, come collante di un nuovo blocco sociale e base di una nuova politica.
Sovranità nazionale non è nazionalismo. E’ ridiscutere democraticamente quale sia lo spazio sovranazionale in cui il Paese di deve in ogni caso far parte. Qui si fa sentire un altro degli effetti della crisi: la progressiva dissoluzione dello spazio “globale” ed “europeo” nel quale eravamo soliti muoverci. Il multipolarismo è, in questo senso, uno spazio più favorevole della (presunta e parziale) globalizzazione, perché è l’unica griglia che possa sottoporre a controllo i flussi altrimenti devastanti dei capitali transnazionali. E non è più possibile trasformare l’Unione Europea in qualcosa di più paritario, cooperativo, democratico: è piuttosto necessario iniziare da subito a definire e costruire uno spazio mediterraneo-mediorientale in cui inserire il nostro Paese, prima come prospettiva da far balenare nelle trattative comunitarie, poi come concreta alternativa all’Unione monetarista.
Infine se la crisi è davvero crisi di un intero modo di produzione e dei rapporti sociali e geopolitici che lo sostengono, la si può attraversare solo avendo un modello alternativo forte, che non può ridursi alla sola economia decentrata, sociale e cooperativa. Bisogna quindi ritrasformare il nostro comunismo da ideale ad idea, da lontano orizzonte a forma realisticamente possibile di una nuova produzione e di un nuovo Stato. Bisogna dunque pensare da subito ad un concreto socialismo, basato sull’intreccio tra proprietà pubblica, sociale e privata, gestito da uno Stato rinnovato, controllato da autonome istituzioni popolari. E quindi (ulteriore e forse più importante lezione della crisi) bisogna tornare a considerare la conquista-trasformazione del potere di Stato (non a caso confiscato in questi anni dai capitalisti, mentre noi si chiacchierava di “autonomia del sociale”) come uno snodo senz’altro non sufficiente, ma comunque assolutamente necessario di qualunque strategia popolare.
Di queste cose si parla nelle note che seguono.
1.1. Conflitti anomali
La crisi ha inaugurato, o portato alla massima evidenza, quello che propongo di chiamare “capitalismo a somma zero”. Se in precedenza, ed anche negli anni della crescita drogata, al massiccio aumento della ricchezza dei capitalisti corrispondeva un ben minore, ma comunque sensibile, aumento della ricchezza (reale o apparente) dei lavoratori, oggi avviene il contrario: il capitalismo sopravvive grazie all’incrudimento del tradizionale sfruttamento di classe e grazie all’espropriazione diretta delle risorse pubbliche e di ciò che prima spettava al lavoro (pensioni, servizi, beni comuni, ecc.). Oggi è sempre più chiaro che ciò che gli uni acquisiscono gli altri perdono: da ciò lo scatenarsi di numerosi e diversificati conflitti. Ma si tratta di conflitti ben diversi da quelli a cui eravamo abituati: alla lotta “ordinata” dei lavoratori sindacalizzati, delle associazioni civili e delle stesse aggregazioni reticolari dei lavoratori precari (più fluttuanti e instabili, ma pur sempre “disciplinate” in un quadro ideologico relativamente chiaro ed identificabile), si affiancano lotte di gruppi mai mobilitatisi prima d’ora o costretti a constatare l’inefficacia delle precedenti mobilitazioni: da ciò il carattere quasi sempre informe e spurio di queste lotte
E’ bene dirsi con chiarezza che nessuna delle attuali forze della sinistra sociale e politica possiede al momento gli strumenti per comprendere queste lotte e per intervenirvi. Eravamo abituati alle lotte per il welfare, gestite dal nesso sindacato/partito/Stato. Queste sono poi state integrate o sostituite da lotte che andavano oltre il welfare e oltre la figura centrale dello stato sociale (il lavoratore stabile, maschio, adulto e sindacalizzato), ed erano gestite da associazioni orientate a culture dette postmaterialiste (femminismo, ambientalismo, diritti civili, pacifismo), ma comunque dotate di una solida tradizione culturale e passibili, pur non senza contrasti, di integrazione con l’ideologia della sinistra. Oggi siamo di fronte a lotte senza il welfare, prive, cioè, degli usuali canali di espressione politica e di trasmissione istituzionale: lotte dagli obiettivi troppo ristretti o troppo generici, dall’ideologia incerta, aperte a diverse declinazioni politiche o impolitiche. E’ illusorio tentare di ridurre l’ultimo, incerto “modello” a quelli precedenti. Per lungo tempo i tre modelli saranno compresenti e contrastanti: potranno essere unificati solo da un modello superiore. Soprattutto, è un grave errore prendere le distanze dalle ultime lotte tacciandole di populismo: nelle attuali condizioni è quasi inevitabile che le nuove mobilitazioni assumano un carattere populista, e fuggire il populismo significherebbe rifiutare di radicarsi nella realtà delle espressioni di massa. Bisogna starci dentro, comprenderle, distanziarsene, se necessario, solo dopo che si è fatto di tutto per trasformarle.
1. 2. Questioni di classe
Un ipotetico “fronte” dei lavoratori dovrebbe unificare figure notevolmente diverse.
Le principali linee di divisione corrono tra stabili e precari, qualificati e dequalificati, uomini e donne, dipendenti, semiautonomi e autonomi, autonomi che servono imprese e autonomi che servono consumatori individuali. Gli intrecci tra queste diverse divisioni possono dar luogo a numerose combinazioni. Tutti questi lavoratori hanno di certo un avversario in comune: tutti sono infatti soggetti ad un processo di proletarizzazione, gestito dall’insieme del capitalismo italiano, che si traduce nella perdita di garanzie per gli occupati stabili, nella diminuzione delle prospettive dei precari, nella crescente sottomissione alle imprese committenti degli autonomi di seconda generazione, nel rapido declassamento degli autonomi di prima generazione. Al momento, però, tutti costoro (salvo poche e fluttuanti eccezioni) sono purtroppo alleati a questa o quella frazione delle classi dominanti. Una parte rilevante lavoratori sindacalizzati (soprattutto quelli pubblici) ed una parte rilevante dei precari o autonomi ad alta o media qualificazione (e, tra questi, soprattutto quelli addetti ai servizi alle imprese, che hanno più difficoltà ad evadere il fisco) sono di fatto alleate alla parte “forte”, europeista e mondialista del nostro capitalismo, nell’illusione che questa possa comunque consentire, oggi o domani, un nuovo sviluppo. Gli altri, molti dipendenti e precari dequalificati, disoccupati, lavoratori autonomi “tradizionali”, sono alleati alla parte “debole” e sedicente “nazionale” o regionalista (quando non ne sono elemento subordinato interno), perché più permeabili al discorso populista, più carenti di strutture di protezione, più propensi all’evasione fiscale.
Date queste differenze, la costruzione di un blocco sociale che comprenda tutte le figure del lavoro oggi subalterno non può essere l’effetto di un progetto sindacale (anche se “one big union” capace di comprendere tutti è in futuro possibile) ma solo di un progetto politico di alto profilo che, partendo dal fatto che nessuna delle frazioni della classe dominante è in grado di assicurare un futuro, si presenti espressamente come rottura delle diverse alleanze subalterne con la classe dominante e come efficace riduzione del potere di queste ultime. Infatti, tutte le diverse proposte di uscita “a sinistra” dalla crisi (beni comuni, reddito di cittadinanza, rilancio della domanda di beni di consumo, politica industriale e via elencando) non hanno alcun senso se si concepiscono e si presentano come semplici alternative di politica economica e non, piuttosto, come causa ed effetto di una trasformazione dei rapporti sociali, di un’ alleanza delle diverse frazioni di una classe contro le diverse frazioni dell’altra, al fine di ridurre il potere dei dominanti.
1.3. Espropriare gli espropriatori
Nessuno stabile sviluppo è possibile in Italia senza un pesante ritorno dell’intervento pubblico nell’economia e senza un immediato controllo democratico e popolare di questo intervento. Nulla di serio si può fare senza la sostituzione dell’attuale intreccio putrescente fra Stato ed interessi privati (nel quale naufragano anche molti gruppi della “società civile”) con la distinzione tra uno Stato autorevole (capace di riprendere la propria funzione di indirizzo e redistribuzione) e una società indipendente (fatta di associazioni capaci di controllare, criticare e all’occorrenza sostituire i gruppi dirigenti dello Stato). Ma tutto questo comporta necessariamente l’espropriazione (e comunque la drastica riduzione del potere) di quei gruppi privati a cui sono state svendute industrie e banche pubbliche, e che saccheggiano le amministrazioni centrali e periferiche con la spregiudicata gestione di appalti e concessioni. Parlare di nuova politica economica senza parlare di questo è illudere sé stessi e gli altri. Questa è la precondizione per un programma popolare che usi le risorse così ottenute per una politica programmata di innovazione, di ricostruzione sociale ed ambientale, di sostegno all’aggregazione delle piccole ed al dinamismo delle medie imprese e, anche per questa via, alla domanda di beni di consumo. Solo un programma del genere può unire i “piccoli” contro i “grandi” e contemporaneamente affrontare i problemi fondamentali del Paese.
1.4 Sovranità popolare (e nazionale) vs populismo
Un simile programma può essere attuato solo da un forte governo popolare. Per accumulare le forze necessarie a costituire un tale governo è necessario iniziare a superare fin da ora la divisione fra i diversi gruppi di lavoratori. Tali divisioni sono di ordine sia materiale che simbolico e riguardano essenzialmente la questione fiscale, le forme di organizzazione e le forme di autorappresentazione ideologica.
Puntando tutto su una generica lotta all’evasione i lavoratori sindacalizzati e quelli comunque “colti” appoggiano di fatto il progetto del capitalismo “forte” che intende stringere il cappio attorno ai piccoli evasori nella consapevolezza che le grandi imprese internazionalizzate possono facilmente giovarsi dei meccanismi di elusione. Pur sapendo che l’elusione fiscale delle grandi imprese potrà essere ostacolata solo dal loro passaggio nelle mani pubbliche, bisogna sin da ora presentare programmi fiscali che concentrino le politiche di recupero sulle ricchezze patrimoniali di ordine superiore (l’assenza di uno straccio di imposta patrimoniale grida vendetta), mentre aumentano gli sgravi alle piccole imprese (e soprattutto a quelle individuali) e riducono le sanzioni contro la piccola evasione. Questo è il perno di una politica di riconquista di risorse da parte dei ceti popolari (fatta anche di cancellazione delle grandi opere, delle spese militari, della privatizzazione dei beni comuni) che serva ad unire questi ceti, evitando con estrema cura di costringere il piccolo evasore ad allearsi col grande.
Nell’emersione dei nuovi conflitti la partita dell’egemonia si gioca, oltre che sulla questione dei programmi, sulla capacità di essere i primi a proporre forme di organizzazione efficace. Il modo in cui questo conflitti vengono organizzati oggi condizionerà in maniera decisiva il modo in cui si svilupperanno domani, entrerà a far parte del DNA di un intero movimento popolare. Vanno certamente tentate modalità organizzative di tipo sindacale. Ma l’iniziale eterogeneità delle figure e degli obiettivi suggerisce piuttosto, come modello organizzativo di base, i comitati popolari contro la crisi. Tali comitati possono sorgere ex novo, o possono appoggiarsi a precedenti strutture sindacali e partitiche, ma devono in ogni caso sia accogliere l’eterogeneità attraverso il massimo ricorso alla democrazia interna, sia superarla attraverso il mutualismo e la costruzione di una ideologia unificante.
Tale ideologia non può essere l’ideologia classista a cui siamo abituati, e nemmeno può nascere dall’integrazione tra classismo e associazionismo civile che è stata tentata dal movimento altermondialista, ma non è penetrata nella grande massa dei ceti subalterni. Deve piuttosto essere un’ideologia popolare, dove “popolo” indica tutti coloro che lottano non contro la libertà altrui, ma per la propria libertà e dignità (Machiavelli), tutti coloro che rivendicano dignità e libertà non contro altri segmenti del popolo (come vorrebbe il populismo), ma solo contro i potenti. “Popolo”, oggi, può raccogliere ed unire più di “classe”: perché non è solo la classe a mobilitarsi, perché molti segmenti crescenti della classe si concepiscono più come popolo che come lavoratori organizzati, e soprattutto perché anche la mobilitazione di classe, per porsi all’altezza di uno scontro che ribalta la costituzione formale e materiale del Paese, deve presentarsi come rivendicazione della sovranità popolare. Non si tema di perdere, con questo spostamento lessicale, la capacità di nominare e contrastare il capitalismo, anzi. In alcune fasi storiche, come nella seconda metà del XX secolo, lottare come classe significava immediatamente opporre un'altra economia politica all’economia politica dominante. In altre fasi, però, lottare come classe può significare allearsi coi propri padroni, su base aziendale o regionale, contro altri padroni e altri segmenti del proletariato: ed è anche a causa di questa tendenza subalterna del comportamento di classe che Marx ha potuto affermare che, lottando per abolire il capitalismo, il proletariato abolisce sé stesso in quanto classe.
Per lottare contro lo strapotere del capitalismo odierno non si può far affidamento solo sull’iniziativa di lavoratori strutturalmente indeboliti, e si devono piuttosto mobilitare tutte le risorse politiche, giuridiche ed istituzionali che hanno in passato arginato il capitalismo stesso. Il “riassunto ideologico” dell’epoca attuale, la chiave per aggregare strati sempre più vasti di cittadini, deve essere quindi la lotta per la sovranità popolare. E ciò implica immediatamente la lotta per la sovranità nazionale. Sovranità popolare non significa dittatura della maggioranza e rottura dello Stato costituzionale di diritto (come, di nuovo, vorrebbe il populismo), ma sottrazione del potere di decidere alle oligarchie finanziarie (Ferrajoli). Sovranità nazionale non significa affatto nazionalismo, ma difesa di uno spazio in cui sia possibile assumere decisioni democratiche e quindi ridiscutere liberamente il modo in cui si intende essere partecipi di uno spazio sovranazionale. Ma poiché a parlar di nazione subito si affacciano pericolosi equivoci, che vanno dal neofascismo alle sciocchezze “rossobrune” e da queste ai più immediatamente pericolosi governi di unità nazionale per la salvezza della Patria e la dannazione dei lavoratori, converrà, su questo punto, essere più precisi.
2.1. Multipolarismo
Dobbiamo abbandonare decisamente l’idea della “globalizzazione dal basso”, ossia l’illusione che la globalizzazione possa essere democratizzata. Il movimento antagonista deve continuare a costituirsi globalmente, ma la sua politica non può più essere globalista. Infatti la globalizzazione è essenzialmente liberalizzazione completa dei movimenti del capitale, e questa crea un continuo dumping sociale che distrugge l’organizzazione dei lavoratori e dei cittadini e dunque rende impossibile la democrazia. Volere la globalizzazione democratica è come volere il capitalismo democratico, ossia qualcosa che era assai difficile ottenere nell’epoca del capitalismo nazionale e del patto socialdemocratico, e che diventa impossibile ottenere adesso, nell’epoca del capitalismo “assoluto” e “senza compromessi”, assoluto perché globalizzato. L’unica strada per tentare la costruzione di un ordine economico politico cooperativo e pacifico è il multipolarismo, ossia la creazione di vaste regioni economico-politiche che non eliminino i flussi di capitale ma li sottopongano a vincoli e a contrattazioni di tipo politico, rendendo così possibili al proprio interno scelte pro labour. E’ una via irta di rischi: protezionismi, guerre (che peraltro sono il leit motiv della globalizzazione). Ma è l’unica condizione che possa assicurare gli equilibri necessari alla creazione di una moneta comune che non sia strumento dell’egemonia di un polo (come avviene col dollaro) ed alla costruzione di un effettivo diritto internazionale (Ferrajoli) che non si limiti ad assicurare il libero movimento del capitale e a giustificare tutte le più infami guerre.
Per ridurre i rischi e favorire le possibilità positive del multipolarismo, il movimento antagonista, reso più forte dalla possibilità di crescere, in ciascuna regione, al riparo dalla violenza dei flussi di capitale incontrollati, deve però continuare ad esprimere la propria vocazione globale, ed anzi la deve rendere più forte concretizzandola con la costruzione di una V Internazionale (Samir Amin), più vicina al pluralismo della I che al centralismo della III, ma capace di darsi quegli obiettivi politici unitari che il Forum Sociale Mondiale non vuole e non può darsi.
2.2. Oltre l’Europa
L’Unione Europea, come progetto realmente unitario e unificante, è finita. Nel futuro avremo l’Europa “a due velocità”, o l’esplosione dell’Unione. Ciò equivale a dire che i PIIGS saranno condannati ad una lunga recessione ed alla definitiva integrazione subalterna nelle economie “forti”, e che i cittadini di tutto il continente saranno condannati a pagare un modello fondato sulle esportazioni. In queste condizioni l’ “altra Europa”, l’Europa “sociale”, costruita “dal basso” è una pura illusione: è impedita dalla struttura istituzionale dell’Unione, dalla cultura delle sue burocrazie, dall’orientamento delle classi dominanti delle nazioni più forti, dall’inesistenza di una realistica alternativa socialdemocratica, dall’inesistenza di un efficace movimento popolare continentale, reso ancor più difficile dalle prospettive di recessione. Dobbiamo dunque uscire dall’Europa? No, o comunque non subito. Dobbiamo però uscire dall’ ”europeismo senza condizioni” che ci accomuna all’ideologia ed alla politica delle frazioni “forti” del capitalismo italiano. Queste frazioni hanno scelto decisamente l’Europa, costi quel che costi, essenzialmente perché essa consente loro di operare, grazie alla coercizione del “vincolo esterno”, quelle politiche antipopolari rese altrimenti impossibili dal loro storico difetto di egemonia: il governo Monti è la massima espressione di questa strategia.
Anche noi abbiamo scelto l’Europa, ragionevolmente convinti che un progetto di tipo socialista fosse possibile solo in un ambito sovranazionale. La convinzione era giusta, ma l’ambito scelto no: continuare ciononostante ad insistere sull’ “altra Europa” equivale, in questa situazione, ad aderire all’ “europeismo senza condizioni”. Dobbiamo quindi puntare su una soluzione nazionalista? No. Il nazionalismo non è sempre e comunque un male. Quando serve a reprimere la lotta di classe interna sviandola nella lotta contro presunti nemici esterni è un male. Ma quando la repressione della lotta di classe avviene attraverso una particolare forma di internazionalizzazione, il nazionalismo può essere, momentaneamente, una parte della risposta: tutte le più importanti esperienze progressive di questi anni hanno una qualche componente nazionalista, quando non indigenista-comunitarista (Venezuela, Colombia, in parte lo stesso Brasile). Ma il nazionalismo non è una risposta valida per l’Italia, sia per la cultura fortunatamente antisciovinista del Paese sia, e soprattutto, per la sua struttura economica: ogni pur parziale politica nazionalista deve essere infatti compensata dall’esportazione di una qualche risorsa peculiare del Paese, particolarmente richiesta dal mercato mondiale, come l’energia (Venezuela, Colombia) o i prodotti agricoli (Argentina), ma di tali risorse noi siamo privi. Che fare, dunque? La nostra unica speranza, che peraltro si riallaccia a storiche tendenze del Paese, sta nella creazione di un nuovo spazio sovranazionale, centrato sul mediterraneo, aperto alle dinamiche progressive del nordafrica e del medioriente e ponte verso l’Asia e la Cina. Uno spazio estremamente ricco di capitali, di lavoro, di energia, il cui sviluppo sarebbe anche condizione per la rinascita del nostro Mezzogiorno, e quindi del Paese intero. La costruzione di questo spazio (che può avere diverse varianti – si vedano al proposito le tesi di Bruno Amoroso o di Luciano Vasapollo – e che deve essere iniziata da subito, anche dall’opposizione) deve essere giocata in un primo momento all’interno delle dinamiche europee, come elemento che aumenti il nostro potere di negoziazione, ma deve essere vista, in prospettiva non remota, come alternativa all’Unione Europea ed alla sua deriva monetarista e recessiva.
2.3. Dignità del lavoro, dignità del Paese
Non dobbiamo, dunque, essere nazionalisti. Eppure dobbiamo reinserire nel nostro lessico la “nazione” come categoria economica, politica ed ideologica. Non la nazione come etnia, come deposito di una storia o come comunità linguistica, ma la nazione come spazio di diritti, come luogo di possibile decisione democratica di contro alla chiusura tecnocratico-capitalistica degli spazi sovranazionali. La nazione come punto di partenza di una politica e di una dimensione sovranazionale alternativa, e non come punto di arrivo di una illusoria autarchia.
Come notava Gramsci, non è detto che una forma storicamente superiore di Stato, più conforme all’evoluzione economica mondiale, sia necessariamente positiva anche per i lavoratori, e quindi non è detto che ogni passo indietro rispetto a quella forma sia necessariamente reazionario. Non è detto che la globalizzazione e l’Unione Europea, astrattamente progressive rispetto alla nazione ed al nazionalismo, siano progressive anche concretamente: ed in realtà mostrano di essere regressive. Lo spazio nazionale può dunque momentaneamente tornare ad essere progressivo, ma a due condizioni: 1) che sia definito a partire dagli interessi popolari e 2) che si apra immediatamente ad una forma di cooperazione sovranazionale, costituendo una delle aree regionali dell’equilibrio multipolare.
Dobbiamo quindi prendere le mosse dagli interessi del blocco sociale a cui ci riferiamo, e subito dopo trovare il punto di intersezione fra questi interessi ed i problemi oggettivi del Paese (quelli, per intenderci, che ogni classe che voglia divenire egemone deve, a suo modo, risolvere). Gli interessi popolari si riassumono sostanzialmente, oggi, nella riconquista della dignità del lavoro (nuova e stabile occupazione, riconoscimento del ruolo centrale del lavoro nel processo produttivo), in un mutamento della struttura dei consumi che punti a soddisfare i bisogni essenziali, in una tutela generale dell’ambiente naturale e sociale. I problemi oggettivi del Paese si riassumono nella necessità di operare un salto verso l’economia della conoscenza e di inserirsi in uno spazio sovranazionale paritario che consenta una relativa sicurezza energetica, un interscambio di lavoratori, merci e capitali, una salvaguardia della pace. Ebbene, le classi attualmente dominanti non sono in grado di affrontare seriamente i problemi nazionali perché i capitalisti che si sono appropriati delle aziende e delle banche pubbliche (che erano ormai degenerate, ma costituivano pur sempre un potenziale volano economico ed innovativo) preferiscono l’arricchimento patrimoniale all’investimento produttivo, gestiscono le imprese con capitali esigui, sufficienti a controllarle, ma non a svilupparle (fatte le debite proporzioni, il “nanismo” industriale è malattia non solo delle piccole imprese, ma anche di quelle grandi), e perciò, quando investono in produzione e non in speculazione, preferiscono la facile via del supersfruttamento del lavoro dell’ ambiente e della ricchezza pubblica a quella più onerosa dell’innovazione e del rischio imprenditoriale. Inoltre, tutto ciò si traduce in una gracile egemonia sociale, che cerca sostituti o nel vincolo esterno europeo, o nel lassismo fiscale, nelle immaginarie comunità regionali, o in uno pseudonazionalismo che si trasforma rapidamente in servilismo ad ogni seria crisi internazionale. Il governo Monti, divenuti momentaneamente inservibili in nazionalismo berlusconiano ed il regionalismo, esercita chiaramente un’egemonia per vincolo esterno e ne approfitta per proseguire nella via maestra del capitalismo italiano, liberalizzando davvero solo il mercato del lavoro, i servizi pubblici e (meno) qualche ordine professionale e qualche area residuale, lasciando per il resto sostanzialmente intatte qualche le concentrazioni di potere industriale e finanziario. Una via maestra che riproduce le condizioni che impediscono l’innovazione: le odiose tirate contro il “posto fisso” occultano il fatto che l’innovazione richiede rapporti stabili tra lavoro ed impresa, “fidelizzazione” del lavoratore come condizione di una lettura coerente del processo di lavoro, delle trasformazioni necessarie, della loro implementazione. E’ solo un esempio, ma è il più importante: la dignità del lavoro è condizione della dignità del Paese perché l’innovazione è essenzialmente effetto di un clima sociale realmente cooperativo; l’innovazione sociale, insomma, è condizione dell’innovazione tecnologica. Inoltre, la sostituzione, nei settori strategici, dell’intervento pubblico a quello privato non è solo sostegno all’occupazione, ma superamento della scarsità di capitali che impedisce l’innovazione stessa. E infine, la dignità del lavoro coincide con la dignità del Paese perché impone la ricerca di uno spazio sovranazionale cooperativo che superi l’attuale subalternità italiana.
E’ in tal modo che un programma popolare diviene programma nazionale (nazionale perché popolare – Gramsci), diviene nuova politica internazionale e aumenta, anche per questa via, la propria capacità di egemonia all’interno del Paese stesso.
Un programma popolare e nazionale può radicarsi stabilmente all’interno di una determinata formazione territoriale solo se prende le mosse da un’analisi delle classi e del loro rapporto con le dinamiche internazionali. Ed è quanto abbiamo cercato di tratteggiare in queste note. Ma tutto ciò non basta. In situazioni di crisi epocale, come quella che stiamo vivendo, si confrontano e si confronteranno ancor di più, sulla scena globale, diversi possibili modelli di soluzione della crisi stessa. Noi dobbiamo avere un nostro modello alternativo, per non restare prigionieri di quelli altrui. Dobbiamo insomma avere una più precisa e concreta idea di quel comunismo e di quel socialismo di cui sempre parliamo e di come la loro pur parziale realizzazione si intrecci con i conflitti mondiali. Senza questa idea non saranno possibili né programmi di fase né programmi immediati, e la stessa prospettiva popolare e nazionale si troverà sguarnita di fronte alle evoluzioni ed alle precipitazioni della crisi. Dobbiamo avere, insomma, un chiaro obiettivo storico, ed organizzare le nostre forze e la nostra politica in relazione ad un tale obiettivo. Propongo, in conclusione, alcune prime riflessioni su questo punto.
3.1 Crisi, capitalismo di Stato, socialismo
Il nostro obiettivo storico deve tornare ad essere il comunismo. E poiché quest’ultimo può esistere solo come combinazione concreta di produzione sociale e privata, di democrazia autorganizzata e rappresentativa, di società autogovernata e di Stato costituzionale di diritto, è al socialismo che dobbiamo puntare come forma effettiva di realizzazione della tendenza comunista. Di fronte alla crisi non basta, infatti, rivendicare diritti, democrazia, politiche economiche progressive. La crisi non dipende solo dalla finanza, ma anche da una struttura proprietaria delle imprese; non deriva solo dal deficit di domanda “popolare”, ma anche dalla diminuzione degli investimenti industriali, sempre meno profittevoli, nonostante la continua compressione del lavoro, dato l’alto costo dell’innovazione, della ricerca e della commercializzazione. Solo rastrellando la maggior massa possibile di ricchezza sociale il capitalismo può uscire da quest’ultima, cruciale, difficoltà. L’ha fatto con l’intervento degli “investitori istituzionali” (fondi pensione, ecc.), ma questi hanno piegato le imprese alla logica del ritorno immediato per gli azionisti, in spregio di qualunque logica produttiva. L’ha fatto con la creazione di capitale fittizio (di “denaro privato”) attraverso la finanziarizzazione, e si è visto come è andata a finire. Ora lo fa, e lo farà sempre di più in futuro, ricorrendo direttamente allo Stato, per creare moneta, per drenare ricchezza popolare (la c.d. crisi del debito pubblico e le conseguenti misure recessive), per salvare e gestire le imprese che richiedono maggiore capitale e così orientare l’intera produzione. Questo aperto ricorso allo Stato, dopo decenni di ricorso occulto alla mano pubblica, è il riconoscimento de facto della giustezza della previsione di Marx: ad un certo punto la produzione diviene talmente socializzata da non poter più essere gestita dal singolo capitale e da richiederne l’assunzione diretta da parte della società stessa. Solo che, in assenza di un movimento socialista internazionale, questo riconoscimento avviene in forma capitalistica, e si presenta come un colossale spostamento di reddito dai cittadini al capitale, come completo soggiogamento dello Stato al capitale stesso, o come creazione di una burocrazia statale che assume in prima persona il compito della valorizzazione capitalistica. Socialismo per i padroni, mercato per i lavoratori! : questa è la parola d’ordine del nuovo capitalismo di Stato.
A noi tocca invece iniziare e condurre con decisione la battaglia per far sì che tutto ciò che funziona grazie alle risorse sociali venga proporzionalmente gestito dalla società stessa, si trasformi in proprietà pubblica, sociale e comune attraverso lo spossessamento dei capitalisti. Questo, e niente di meno.
Non basta rivendicare i beni comuni se non si comprende che il capitale stesso è un bene comune in quanto prodotto sociale, ed è quindi giusto riappropriarsene. Non basta rivendicare l’economia sociale e cooperativa, se questa lascia intatte le grandi imprese e la loro logica. Non serve la retorica della lotta sociale, l’autocelebrazione delle capacità creative della cooperazione, della moltitudine, del lavoro, se il lavoro vivo non si riappropria di quel lavoro morto (macchinari, strutture organizzative, denaro: ossia imprese e banche), che pur essendo un suo prodotto, continua ad ergersi contro il lavoro stesso come una potenza estranea ed ostile (Marx). Nessun errore sarebbe più grave, di fronte al ritorno del capitalismo di Stato, del reagire con la solita contrapposizione tra Stato e società, rifugiandosi nella seconda per tentare di “condizionare” il primo.
3.2 Importanza dello Stato
Lo Stato contemporaneo è un insieme di istituzioni pubbliche e private, nazionali, sovranazionali e regionali che, attraverso norme legali o regole pattizie stabilite tra organizzazioni private aventi funzioni pubbliche, assicura una relativa continuità alla riproduzione di determinati rapporti sociali. Questa dispersione, questo polimorfismo dello Stato ha fatto risorgere tra di noi l’idea che lo Stato sia irrilevante, o non esista più, o (in singolare coincidenza col liberismo radicale) che in ogni caso non dovrebbe più esistere. La crisi, conviene ripeterlo, ha tolto ogni credibilità a queste tesi. Nelle fasi ascendenti si può delegare alle strutture sovranazionali una buona parte delle decisioni, anche per allontanare l’attenzione dai luoghi fondamentali della politica. Ma quando il gioco si fa duro, le cose cambiano, e molto. Nel momento decisivo della crisi stessa gli apparati pubblici nazionali sono tornati ad essere il perno dello Stato intero e della stessa economia, in quanto primi depositari della possibilità di battere moneta socialmente validata (mentre la gran massa della moneta “privata” – titoli, derivati, ecc. – mostrava d’essere carta straccia o puro segno elettronico) e di drenare risorse spostandole massicciamente da una classe all’altra. Senza il loro saldo potere sui governi nazionali, pazientemente costruito mentre noi teorizzavamo l’irrilevanza del “politico”, le stesse classi capitalistiche transnazionali non sarebbero riuscite ad operare quel colossale spostamento di reddito dal lavoro al capitale (salvataggi bancari, emissioni di moneta a debito ripagate con tagli al welfare) che ha loro consentito di sopravvivere e addirittura di costituire concentrazioni di capitale più forti di quelle sono state concausa della crisi. Se ne deve dedurre che senza condizionare, influenzare, conquistare e trasformare il potere dei governi nazionali (come premessa della presa e trasformazione degli apparati statali in generale) le classi subalterne resteranno per sempre tali. Il che comporta (oltre alla consapevolezza che si tratterebbe comunque solo di una parte della trasformazione necessaria) che la politica delle classi subalterne non può consistere solo nella crescita progressiva della democrazia sociale e delle sue istituzioni autorganizzate, ma deve tornare ad essere anche azione coordinata per spostare, in congiunture determinate, i rapporti di forza tra le classi al fine di conquistare i diversi “pezzi” di Stato di volta in volta decisivi, ed in particolare i governi nazionali (Lenin). Chi, ciononostante, continua ad insistere sull’autonomia del sociale, dimentica che l’idea stessa (e la pratica) di autonomia del sociale, nelle sue forme contemporanee, nasce proprio come effetto paradossale dell’espansione del Big Government: solo sulla base della sicurezza e delle risorse fornite dallo Stato la società ha potuto in molti casi “far da sé”. Ed è proprio perché le erogazioni del welfare erano da tempo garantite, tanto da sembrare ovvie e addirittura “naturali”, che la società ha potuto pensare, ad un certo punto, di essere del tutto autonoma dallo Stato e di poter sussistere senza l’ausilio di politiche pubbliche, dunque autoritative, di redistribuzione. Ma quando queste politiche cessano, ed anzi assumono segno inverso, si vede chiaramente che senza una trasformazione diretta dell’orientamento dello Stato le organizzazioni sociali sono condannate ad un semplice ruolo di resistenza. Un ruolo comunque importantissimo, certo: non solo perché senza resistenza non c’è controffensiva, ma perché è pur sempre fuori dallo Stato, e quindi nelle autonome istituzioni sociali, che deve e può costituirsi un soggetto antagonista, ossia capace di elaborare ed in parte sperimentare rapporti sociali alternativi. Fuori dallo Stato oggi (perché è Stato capitalistico) e domani (perché anche uno Stato socialista, pur democratizzato, tenderebbe inevitabilmente a riprodurre relazioni gerarchiche): ma fuori dallo Stato per accumulare le forze ed il sapere necessari a conquistare e trasformare lo Stato stesso, rimanendone pur sempre distinti. Il nostro “comunismo di società” quindi, pur facendo sempre perno sull’autonomia delle istituzioni di movimento, non può limitarsi ad essere un pensiero del “non-Stato” e deve divenire anche pensiero del nuovo Stato, ossia della nuova combinazione di organi, pubblici e no, capaci di assicurare continuità (Gramsci) alla nuova forma di riproduzione sociale.
3.3 Programmi per il tempo breve, medio e lungo
Posso ora riassumere il senso del mio ragionamento.
Come parte potenziale di una V Internazionale tutta da costruire, il movimento comunista italiano (e con esso tutta la residua sinistra) deve battersi per un programma immediato di ricostruzione di un blocco sociale anticapitalista, per un programma intermedio di governo popolare, e in prospettiva per un programma socialista.
Nella cornice della rivendicazione della sovranità popolare e nazionale, il programma immediato punta a rompere l’alleanza subalterna delle diverse frazioni popolari con le diverse frazioni capitaliste. Lo fa proponendo una forte redistribuzione del reddito dall’alto in basso, con particolare attenzione a non colpire ulteriormente le categorie intermedie in via di proletarizzazione, che sono la vera posta in gioco di una lotta per l’egemonia. Lo fa iniziando a costruire autonome istituzioni di movimento in cui si unifichino i diversi strati popolari. E proponendo un ripudio delle politiche europee, un nuovo spazio sovranazionale per il Paese, un immediato “piano del lavoro” per la manutenzione del nostro paesaggio ambientale e sociale e per le connesse innovazioni.
Il programma di un governo popolare, la cui possibilità dipende dalla creazione del blocco antagonista e dall’acutizzarsi della crisi d’egemonia del capitalismo italiano ed europeo, inizia a modificare la struttura della produzione, soprattutto grazie ad una parziale espropriazione delle grandi concentrazioni capitaliste ed all’intervento diretto ed indiretto dello Stato, sottoposto a tutte le forme possibili di controllo dal basso ed integrato all’economia sociale e cooperativa. Sulla base di questa modifica trova le risorse per rilanciare innovazione, occupazione e domanda interna. Contemporaneamente lavora in concreto per un nuovo spazio sovranazionale, negoziando duramente con l’Unione Europea e preparando un’alternativa ad essa.
Un simile governo popolare non può far altro, in una prima fase, che dar vita ad un capitalismo di Stato democratico, che, pur rafforzando la posizione dei cittadini e dei lavoratori, non riuscirà a modificare che parzialmente il fine generale delle imprese (ossia la spinta alla massima valorizzazione possibile), la forma salariata del lavoro, la forte diffusione della proprietà privata anche oltre i settori in cui essa è comunque opportuna. Esso deve essere quindi considerato come un momento di accumulazione delle forze per un salto ulteriore, i cui tempi e le cui forme non possono essere predeterminati, ma che l’evolversi della crisi mondiale potrebbe rendere necessario, oltre che possibile. La sua evoluzione verso il socialismo potrà essere misurata, oltre che dalla capacità di espropriare gli espropriatori aumentando, e non riducendo, democrazia e pluralismo, dalla risposta alle seguenti sfide: riduzione della spinta alla massima valorizzazione del capitale, possibile solo in uno spazio multipolare che freni la mobilità del capitale stesso; riduzione della dipendenza dei cittadini dal lavoro salariato, attraverso la riduzione del tempo di lavoro subalterno, l’aumento del tempo di lavoro sociale gratuito e la conseguente fruizione gratuita di beni e servizi; sviluppo di un apparato amministrativo dialogico, la cui azione sia basata sul principio del coinvolgimento obbligatorio dei soggetti sociali nella definizione delle politiche che li riguardano; crescita di istituzioni popolari, dotate di capacità e potere di controllo sulle imprese e sullo Stato, ma necessariamente autonome dallo Stato in quanto fonte continua di rinnovamento dei gruppi dirigenti, strumento di contrasto alle inefficienze ed alle involuzioni oligarchiche e burocratiche dello Stato stesso; elaborazione statuale e sociale di una economia programmata che orienti l’innovazione non verso la continua creazione di beni di consumo, ma verso tecnologie di gestione razionale delle risorse, delle energie, dell’ambiente sociale e naturale (tecnologie che diverranno in futuro decisive anche nel mercato mondiale) .
Si può certamente avere un’altra idea di socialismo ed un'altra idea di società. Ma chiunque voglia affrontare la crisi per quello che essa effettivamente è deve proporre comunque una visione forte del futuro, l’idea di una nuova situazione per la quale lottare. Solo così un partito comunista potrà tornare ad essere qualcosa di più del ricettacolo di differenti famiglie politiche, del vessillifero di qualche generoso e confuso ideale, e potrà tornare ad essere un’idea che diviene organizzazione, e quindi senso comune.
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