lunedì 26 dicembre 2011

La rivolta sociale è alle porte

di Giulietto Chiesa - 23 Dicembre 2011
Gli stipendi italiani sono fermi da 10 anni. Stanno cercando di portarci via i risparmi. Le rivolte sociali mi auguro che avvengano perché sarebbe il segno di una risposta popolare molto energica. La questione primaria è: questo debito chi lo ha fatto? Chi lo deve pagare? La risposta è: ......
LA RIVOLTA SOCIALE E' ALLE PORTE


Gli stipendi italiani sono fermi da 10 anni. Sui redditi delle famiglie, pesano l'aumentata tassazione e la mancata crescita. I nostri salari, fissi a 25.155 dollari, sono inferiori di mille euro circa rispetto alla media Ocse, e di circa 4000 rispetto alla media Ue a 15. E con gli stipendi, si riducono anche le prospettive di futuro. Un mix micidiale. Cosa succederà? Diventeremo tutti più poveri?
"Sicuramente sì, la manovra del Governo costituisce uno strumento fondamentale per organizzare la recessione dell'economia italiana. E' ovvio che riducendo salari, pensioni, servizi sociali, la quantità di denaro a disposizione delle famiglie si contrarrà e, parimenti si ridurrà la quantità di denaro a disposizione dello Stato attraverso le entrate fiscali. Quindi stiamo andando verso una recessione molto grave che prevede anche la perdita di decine di migliaia di posti di lavoro. Chiunque pensa che andiamo verso la crescita nell'immediato e anche nel medio periodo, si sbaglia o mente spregiudicatamente per ingannare la gente. Saremo molto più poveri e si avvia una fase di grande difficoltà sociale."

Potrebbero esserci rivolte sociali?
"Le rivolte sociali ci saranno, anzi io mi auguro che avvengano perché sarebbe il segno di una risposta popolare molto energica. In questo momento siamo sottoposti a un vero e proprio attacco, quando dico "siamo" mi riferisco alla stragrande maggioranza degli Italiani. Mi auguro che siano proprio le famiglie ad organizzare la protesta sociale, anziché subire, magari sedute davanti al televisore, i colpi che vengono loro inferti."

Sinora siamo andati avanti appoggiandoci ai risparmi delle famiglie. Cosa accadrà quando anche quelli finiranno?
"E' vero, stanno cercando di portarci via i risparmi in un modo o nell'altro, e l'esito sarà assai peggiore di quello attuale. Colgo l'occasione di questa domanda per ricordare a tutti che il paese più indebitato del mondo non è l'Italia, ma gli Stati Uniti d'America in cui solo il debito delle famiglie ammonta al 240% del Pil. Il secondo paese più indebitato è la Gran Bretagna che ha un debito privato delle famiglie che supera il 103% del Pil. Noi siamo soltanto al 43%, il che vuol dire che l'Italia è da questo punto di vista uno dei Paesi più sani d'Europa, seconda soltanto alla Germania, meglio della Francia e di tutti gli altri Paesi europei. Dunque, il nostro non è affatto un Paese malato e sull'orlo del disastro come si vuole far credere, la descrizione di un'Italia scialacquona, stupida, ignorante e consumista senza criterio è una descrizione forzata, bugiarda e soprattutto pericolosa. La questione primaria è: questo debito chi lo ha fatto? Com'è stato fatto e chi lo deve pagare? La risposta è: noi. Io dico invece che non dobbiamo pagarlo, bisogna che nasca un movimento nazionale che rifiuta questo debito e che chiede un'immediata rinegoziazione europea del debito italiano, greco, spagnolo, portoghese, irlandese."

Lasciare il Paese può essere una soluzione?
"L'Italia è la nostra patria, il nostro Paese, il luogo dove viviamo, ci mancherebbe altro! Se ne vadano coloro che hanno costruito un internazionalismo della finanza mondiale senza patria, che non pagano le tasse e dunque non avrebbero neanche il diritto di essere italiani. C'è una vecchia frase inglese che dice: 'no representation without taxation', questa gente non ha diritto di essere rappresentata in Italia perché ha elevato le tasse in tutti questi decenni e adesso favorisce la speculazione internazionale aumentando ulteriormente l'evasione. Questi non sono Italiani e quindi dico: restiamo qui a difendere il nostro Paese."

Fonte: Cado in piedi

mercoledì 21 dicembre 2011

La privatizzazione è una cagata pazzesca

E' davvero avvilente notare il declino morale e politico del centrosinistra torinese e del suo principale attore: il Partito Democratico. La città è sommersa da manifesti firmati dal "rottamatore" Catizone, sindaco di Nichelino, indagato per abuso edilizio. Come non dimenticare la candidatura nel PD alle scorse comunali (2011) di Giusi La Ganga, politico che ha patteggiato 20 mesi di reclusione e multa di 500 milioni di lire per finanziamento illecito ai partiti (1) L'estate calda, causa scandalo Penati, del Partito Democratico, pare non finire mai, proprio come il suo declino morale.  Ma sicuramente è il declino politico del PD e di tutta la coalizione del centrosinistra di Fassino che più fa gridare allo scandalo e al tradimento.

Sono passati pochi mesi, ma sicuramente uno dei provvedimenti più osceni è la privatizzazione, seppur parziale, dell'AMIAT, della GTT e della TRM.
Se il grande popolo del Referendum, il popolo della sinistra (e non solo), aveva chiesto a gran voce di abbandonare il modello neoliberista e di pubblicizzare i beni comuni, a partire dall'acqua, la giunta sinistrata di Fassino ha risposto nel peggiore dei modi: privatizzazioni!

Il 23 novembre 2011 il Consiglio Comunale di Torino ha deciso di VENDERE il 40% delle aziende pubbliche locali: AMIAT (rifiuti), GTT (trasporti pubblici) e TRM (termovalorizzatore) per un solo motivo: far cassa. Per farci mandar giù la pillola hanno propagandato le solite falsità, dicendo che i servizi saranno migliori, più puntuali e le tariffe più concorrenziali.

Il collettivo "Le Lavoratrici e i Lavoratori Beni Comuni al servizio della cittadinanza" respingono queste falsità con dati reali e documentabili
"Gli acquirenti delle tre aziende avranno l’obiettivo di ricavare degli utili e lo faranno a spese della cittadinanza e delle/i lavoratrici/ori del settore.
Attenzione: già a partire dal 1 dicembre 2011 saranno attuati i primi tagli al trasporto pubblico locale (rete ferroviaria e autobus), tagli che continueranno nel 2012 e fino al 2014. Scompariranno così intere linee urbane: ad esempio il 63 e il 14 saranno accorpati con un grave peggioramento del servizio in tutta la zona di Mirafiori sud. E’ prevista la riduzione di altre linee, con conseguenze disastrose per l'utenza. In sintesi, invece di aumentare il trasporto pubblico per ridurre il traffico e l’inquinamento si diminuisce il servizio: di conseguenza aumenteranno i tempi di attesa di bus e tram alle fermate, le vetture circoleranno stracariche e peggioreranno la manutenzione e la pulizia. E naturalmente, come ha già annunciato la Regione, fra breve verranno aumentate le tariffe, nella misura del 6% per i bus e del 18% per i biglietti ferroviari.
Prevediamo che anche il servizio di raccolta rifiuti offerto da AMIAT peggiorerà drasticamente, con aumento delle tariffe e una città più sporca.
Ma soprattutto, care cittadine e cittadini, con questa decisione il Comune di Torino obbedisce all’ultimo decreto del governo Berlusconi, che nel frattempo è caduto, e viola i risultati dei referendum di giugno che hanno abrogato l’articolo 23bis del decreto Ronchi con il quale si obbligavano i Comuni a vendere quote delle proprie aziende a privati. Siamo costernati dal fatto che anche i partiti sostenitori di quei referendum - SEL e IDV – che ora sono al governo a Torino, e in altre città italiane, hanno votato per vendere le aziende pubbliche, insieme al PD.
A Torino i servizi locali erano diventati pubblici a inizio Novecento a seguito di un referendum popolare e sono stati indispensabili per la crescita economica della città. Oggi, a parole si invoca la crescita contro la crisi, ma nei fatti si consente a pochi monopolisti di fare affari sui servizi essenziali, cioè sulle necessità di base delle cittadine e cittadini: i trasporti, i rifiuti, l’energia."

Da gennaio il prezzo del biglietto aumenterà del 50%, un biglietto urbano costerà 1,50. Verranno soppresse e ridotte alcune linee per un servizio meno efficiente. Il comune farà cassa e a pagare saranno sempre i cittadini, che con un prezzo maggiorato si troveranno un servizio ridotto.
Il posto di lavoro di molti lavoratori è a rischio: non possiamo permetterlo.

Per protestare e denunciare la privatizzazione abbiamo lanciato a Torino il "Ticket Crossing", una risposta dal basso, alla crisi, contro l'aumento del prezzo del biglietto e la privatizzazione della GTT. Il trasporto deve tornare un bene comune accessibile a tutti.

Cedere il biglietto ancora valido, utilizzare tutti i minuti di validità, lasciare il biglietto ancora valido nei punti ticket crossing sono modi per abbattere, dal basso, il costo e aiutarsi come collettività. Questa è la nostra iniziativa per resistere alle privatizzazioni e alla speculazione sui servizi pubblici.
Oblitera il biglietto, conservalo fino alla tua destinazione. Prima di scendere dal bus controlla quanto tempo di validità rimane e inseriscilo nel punto di “ticket crossing” che trovi nei pressi di tante fermate e che puoi facilmente creare vicino alla fermata sotto casa.
Prima di salire sul bus, controlla che qualcuno non abbia lasciato un biglietto ancora valido nel punto di ticket crossing.
Alla nostra prima uscita, in quasi 2ore, abbiamo distribuito 5mila volantini e diverse persone hanno ceduto il proprio biglietto. Moltissimi cittadini, soprattutto giovani e anziani, hanno lodato la nostra iniziativa, mostrando un grossissimo malcontento verso la scelta antipopolare della Giunta Fassino.

Contro la riduzione del servizio e l'aumento dei costi!
Contro la privatizzazione di AMIAT, GTT e TRM
Come Giovani Comunisti vogliamo la pubblicizzazione dei beni comuni e chiediamo il servizio gratuito per studenti, pensionati, disoccupati e le fasce più deboli.


La privatizzazione è "una cagata pazzesca". La nostra risposta è Ticket Crossing, prossimamente nelle migliori fermate dei pullman!

Andrea 'Perno' Salutari
Coordinatore provinciale dei Giovani Comunisti Torino 2.0

L’Argentina in dieci anni dal collasso al rinascimento. Come liberarsi del Fondo Monetario Internazionale e vivere felici

Oggi, esattamente dieci anni fa, tra il 19 e il 20 dicembre 2001, l’Argentina esplodeva. Fernando de la Rúa, ultimo presidente di una notte neoliberale durata 46 anni, appoggiato da una maggioranza nominalmente di centro-sinistra, sparava sulla folla (i morti furono una quarantina) ma era costretto a fuggire dalla mobilitazione di un paese intero. Le banche e il Fondo Monetario Internazionale gli avevano imposto di violare il patto con le classi medie sul quale si basa il sistema capitalista: i bancomat non restituivano più i risparmi e all’impiegato Juan Pérez, alla commerciante María Gómez, all’avvocato Mario Rodríguez era impedito di usare i propri risparmi per pagare la bolletta della luce, la spesa al supermercato, il pieno di benzina.

Il cosiddetto “corralito”, il blocco dei conti correnti bancari dei cittadini, era stato l’ultimo passo di una vera guerra economica contro l’Argentina durata quasi cinquant’anni. L’FMI era stato il vero dominus del paese dal golpe contro Juan Domingo Perón nel 1955 fino a quel 19 dicembre 2001. Attraverso tre dittature militari, 30.000 desaparecidos e governi teoricamente democratici ma completamente sottomessi al “Washington consensus”, l’Argentina era passata dall’essere una delle prime dieci economie al mondo all’avere province con il 71% di denutrizione infantile, dalla piena occupazione al 42% di disoccupazione reale, da un’economia florida al debito pubblico pro-capite più alto al mondo. Con la parità col dollaro, e con la popolazione addormentata dalla continua orgia di televisione spazzatura dell’era Menem (1989-1999), il paese aveva dissipato un’invidiabile base manifatturiera e tecnologica. Nulla più si produceva e si spacciava che oramai fosse conveniente importare tutto in un paese che aveva accolto, realizzato e poi infranto il sogno di generazioni di migranti e da dove figli e nipoti di questi fuggivano.

In quei giorni, in quello che per decenni il FMI aveva considerato come il proprio “allievo prediletto”, salvo misconoscerlo all’evidenza del fallimento, non fu solo il sottoproletariato del Gran Buenos Aires ridotto alla miseria più nera a esplodere ma anche le classi medie urbane. Queste, che per decenni si erano fatte impaurire da timori rivoluzionari e d’instabilità, blandire da promesse di soldi facili e convincere che il sol dell’avvenire fosse la privatizzazione totale dello Stato e della democrazia, si univano in un solo grido contro la casta politica e finanziaria responsabile del disastro: “que se vayan todos”, che vadano via tutti. Era un movimento forte quello argentino, antesignano di quelli attuali, e solo parzialmente rifluito perché soddisfatto in molte delle richieste più importanti.

I passi successivi al disastro furono decisi e in direzione ostinata e contraria rispetto a quelli intrapresi nei 46 anni anteriori. Quegli argentini che a milioni si erano sentiti liberi di scegliere scuole e sanità private adesso erano costretti a tornare al pubblico trovandolo in macerie. Al default, che penalizzava chi speculava -anche in Italia- sulla miseria degli argentini, seguì la fine dell’irreale parità col dollaro. Le redini del paese furono prese dai superstiti di quella gioventù peronista degli anni ’70 che era stata sterminata dalla dittatura del 1976. Prima Néstor Kirchner e poi sua moglie Cristina Fernández, appoggiati in maniera crescente dagli imponenti movimenti sociali, con una politica economica prudente ma marcatamente redistributiva, hanno fatto scendere gli indici di povertà e indigenza a un quarto di quelli degli anni ‘90. Al dunque l’Argentina ha dimostrato che perfino un’altra economia di mercato è possibile e dal 2003 in avanti il paese cresce con ritmi tra il 7 e il 10% l’anno.

La crescita economica è stata favorita da una serie di fattori propri del nostro tempo, dall’aumento dei prezzi dell’export agricolo all’arrivo della Cina come partner economico. Soprattutto però i governi kirchneristi sono stati, con Brasile e Venezuela, i grandi motori dell’integrazione latinoamericana, una delle principali novità geopolitiche mondiali del decennio. Le date chiave di tale processo sono due: Nel 2005 a Mar del Plata, soprattutto la sinergia Kirchner-Lula stoppò il progetto dell’ALCA di George Bush, il mercato unico continentale che voleva trasformare l’intera America latina in una fabbrica a basso costo per le multinazionali statunitensi mettendo un continente intero a disposizione degli Stati Uniti per sostenere la competizione con la Cina. Nel 2006 l’Argentina e il Brasile, con l’aiuto di Hugo Chávez, chiusero i loro conti col FMI: “non abbiamo più bisogno dei vostri consigli interessati” dissero mettendo fine a mezzo secolo di sovranità limitata. Per anni i media mainstream mondiali hanno cercato di ridicolizzare il tentativo del popolo argentino di rialzare la testa, l’integrazione latinoamericana e la capacità del Sudamerica di affrancarsi dallo strapotere degli Stati Uniti e dell’FMI. A dieci anni di distanza, tirando le somme, ci si può levare qualche sassolino dalla scarpa su chi disinformasse su cosa. Ancora un anno fa, nel momento della morte di Néstor Kirchner i grandi media internazionali –quelli autodesignati come i più autorevoli al mondo- avevano di nuovo offeso la presidente, con un maschilismo vomitevole, descrivendola come una marionetta incapace di arrivare a fine mandato. Il popolo argentino la pensa diversamente e il 23 ottobre 2011 l’ha confermata alla presidenza al primo turno con il 54% dei voti.

Cristina, e prima di lei Néstor, ad una politica economica che ha permesso all’Argentina di riprendere in mano il proprio destino, affianca una politica sociale marcatamente progressista dai processi contro i violatori di diritti umani alle nozze omosessuali. Perfino nei media l’Argentina è oggi all’avanguardia nel mondo nella battaglia contro i monopoli dell’informazione: non più di un terzo può essere lasciato al mercato, il resto deve avere finalità sociali e culturali perché non di solo mercato è fatta la società.


A dieci anni dal crollo l’Argentina sta vincendo la scommessa della sua rinascita. I paradigmi neoliberali sono sbaragliati e dall’acqua alle poste alle aerolinee molti beni sono stati rinazionalizzati per il bene comune dopo essere stati privatizzati durante la notte neoliberale a beneficio di pochi corrotti. I soldi investiti in educazione sono passati dal 2 al 6.5% del PIL e… la lista potrebbe continuare. Basta un dato per concludere: dei 200.000 argentini che nei primi mesi del 2002 sbarcarono in Italia (tutti o quasi con passaporto italiano) alla ricerca di un futuro, oltre il 90% sono tornati indietro: “meglio, molto meglio, là”.

Fonte: Giornalismo Partecipativo

martedì 13 dicembre 2011

Torino ha perso i suoi servizi pubblici

AMIAT, GTT e TRM saranno comprati da privati!
Vogliamo informare le cittadine e i cittadini torinesi che il 23 novembre 2011 il Consiglio Comunale ha deciso di VENDERE il 40% delle aziende pubbliche locali: AMIAT (rifiuti), GTT (trasporti pubblici) e TRM (termovalorizzatore).

Il motivo è semplicemente “fare cassa” ed evitare che il Comune di Torino, indebitato per circa 5 miliardi di euro, di cui 1,3 miliardi dovuti ai Giochi Olimpici, venga commissariato.
Meliorbanca ha calcolato che l’insieme delle tre aziende ha un valore di circa 510 milioni di euro: vendendo il 40% il Comune incasserebbe circa 200 milioni di euro, cioè una cifra irrisoria rispetto al debito. La sola costruzione del termovalorizzatore è costata finora oltre 500 milioni di euro. Più che di una vendita si tratta dunque di una svendita, un buon business per i privati che acquisteranno i pacchetti azionari.
Non è vero che con tale operazione i servizi saranno migliori, più puntuali e che le tariffe saranno concorrenziali. Gli acquirenti delle tre aziende avranno l’obiettivo di ricavare degli utili e lo faranno a spese della cittadinanza e delle/i lavoratrici/ori del settore.


Attenzione: già a partire dal 1 dicembre 2011 saranno attuati i primi tagli al trasporto pubblico locale (rete ferroviaria e autobus), tagli che continueranno nel 2012 e fino al 2014. Scompariranno così intere linee urbane: ad esempio il 63 e il 14 saranno accorpati con un grave peggioramento del servizio in tutta la zona di Mirafiori sud. E’ prevista la riduzione di altre linee, con conseguenze disastrose per l'utenza. In sintesi, invece di aumentare il trasporto pubblico per ridurre il traffico e l’inquinamento si diminuisce il servizio: di conseguenza aumenteranno i tempi di attesa di bus e tram alle fermate, le vetture circoleranno stracariche e peggioreranno la manutenzione e la pulizia. E naturalmente, come ha già annunciato la Regione, fra breve verranno aumentate le tariffe, nella misura del 6% per i bus e del 18% per i biglietti ferroviari. Prevediamo che anche il servizio di raccolta rifiuti offerto da AMIAT peggiorerà drasticamente, con aumento delle tariffe e una città più sporca.

Ma soprattutto, care cittadine e cittadini, con questa decisione il Comune di Torino obbedisce all’ultimo decreto del governo Berlusconi, che nel frattempo è caduto, e viola i risultati dei referendum di giugno che hanno abrogato l’articolo 23bis del decreto Ronchi con il quale si obbligavano i Comuni a vendere quote delle proprie aziende a privati. Siamo costernati dal fatto che anche i partiti sostenitori di quei referendum - SEL e IDV – che ora sono al governo a Torino, e in altre città italiane, hanno votato per vendere le aziende pubbliche, insieme al PD.

A Torino i servizi locali erano diventati pubblici a inizio Novecento a seguito di un referendum popolare e sono stati indispensabili per la crescita economica della città. Oggi, a parole si invoca la crescita contro la crisi, ma nei fatti si consente a pochi monopolisti di fare affari sui servizi essenziali, cioè sulle necessità di base delle cittadine e cittadini: i trasporti, i rifiuti, l’energia.
Le Lavoratrici e i Lavoratori Beni Comuni al servizio della cittadinanza

In Russia torna la voglia di comunismo

Forse la conoscenza delle teorie economiche di Marx avrebbe potuto permettere ai nostri economisti e politici di evitare, o perlomeno di attenuare, l'attuale crisi del capitalismo. (Bryn Rowlands, Financial Times)

Il comunismo vince
In Russia è del tutto evidente che è tornata la voglia di comunismo, ad ammetterlo è persino Roberto Scafuri che sul "Il Giornale", quotidiano sicuramente anticomunista, rivolgendosi al segretario nazionale di Rifondazione Comunista afferma: "Paolo Ferrero, il comunismo vince"
Una spiacevole sorpresa per l'occidente che viene ben rappresentata dalla "grande preoccupazione" espressa da Ilary Clinton. Il grande balzo in avanti dei comunisti (+8% rispetto alle scorse elezioni) e l'annientamento (o quasi) delle forze politiche liberiste filo americane spaventa la patria del capitalismo.
Il Partito Comunista Russo ha raccolto il 20% dei consensi popolari in quest'ultima tornata elettorale, un dato grandioso, ma ridimensionato dai brogli elettorali. Secondo il PCFR (Partito Comunista Federazione Russa) infatti i voti sarebbero oltre il 30% e non il 20% come assegnato dalle commissioni elettorali. I comunisti russi potranno rappresentare la parte più povera del paese e potranno incidere maggiormente sulle scelte complessive del governo russo, sia in quelle economico-sociali che di politica estera, anche grazie all'ottimo risultato nelle città operaie e proletarie.

Ma il comunismo non era morto?
La Cina, seconda potenza mondiale, è governata dal Partito Comunista Cinese, nel grande movimento rivoluzionario dell'America del Sud i comunisti hanno un ruolo in alcune realtà marginale, in altre rilevanti per la costruzione del Socialismo XXI. Perchè dunque da più di 20 anni continuiamo a sentire la cantilena de "il comunismo è morto e il capitalismo è l'unico sistema attuabile?"

"Marx è morto. È questa l'ossessiva litania che siamo ormai abituati a sentire. Dietro tale canto funebre – che a prima vista parrebbe proprio il riscontro di un decesso – si cela però, forse, l'auspicio che tale trapasso abbia luogo davvero, perché il “morto” in questione è ancora in forze e non cessa di seminare il panico tra i vivi. Chi si ostina a ripetere, in nome di Dio o del Mercato, che “Marx è morto” lo fa, allora, perché assillato dal suo spettro: esso continua infatti a denunciare le contraddizioni di un mondo capovolto, di una realtà spettrale che – sospesa in un incantesimo di alienazione e sfruttamento, di feticismo e di mercificazione universale – abbiamo prodotto noi stessi, ma che è a tal punto opaca da sembrare autonoma e da dominarci minacciosa." (Diego Fusaro)

Il futuro è socialista
Il partito guidato da Ghennadi Zyuganov è l’unica forza politica popolare e di massa che in questi vent'anni è riuscito a costruire un'identità alternativa allo strapotere di Russia Unita e di Putin, un'alternativa con prospettiva socialista. La Russia di Putin ha mantenuto un'economia liberista che non ha colmato le disuguaglianze sociali, tanti poveri e pochissimi grandi ricchi. Il collasso dello stato sociale sovietico ha lasciato i russi più deboli e più poveri.
Il tutto si è aggravato negli ultimi due anni con la crisi economica che ha visto il prodotto interno della Russia crollare facendo così crescere il malconento della popolazione che è seriamente preoccupata per il proprio futuro. E sono proprio i giovani i più grandi sostenitori del comunismo in Russia. Secondo il PCFR sette giovani su dieci hanno votato per i comunisti, che sono dunque il partito di maggioranza assoluta tra le nuove generazioni, milioni di giovanissimi che non hanno vissuto nell'Unione Sovietica, ma che vedono solo nel Partito Comunista Russo l'alternativa di sistema pronto a rilanciare la Patria per una miglior giustizia sociale.

Rifondazione Comunista e Sovranità nazionale
Due anni fa fui severamente attaccato perchè OSAI sostenere Zyuganov e il suo PCFR. Patria, Sovranità, Giustizia Sociale: dissi che era anche il mio programma! A distanza di due anni vedo tanti compagni esultare per il risultato russo (capendolo?), diversi compagni finalmente sono pronti a discutere sulla sovranità nazionale dopo il commissarimento della BCE. Cosa è cambiato in questi due anni? Di sicuro non le mie idee.
Zyuganov ha come perno fondante della sua progettualità la sovranità economica, industriale e militare, il suo programma è basato sul rilancio dell'industria e dell'agricoltura come settori trainanti per la rinascista della Russia.

Qui la sintesi estrema del programma del Partito Comunista Russo  (1)

- Ritorno alla proprietà pubblica nel settore minerario e nei settori chiave dell'economia.
- Il fondo valutario statale andrà utilizzato ad uso esclusivo dell'economia nazionale
- Stabilire uno stretto controllo del sistema finanziario.
- Emissione di obbligazioni anti-crisi erogate da un prestito statale
- Inserire la tassazione progressiva iniziando dal reddito di 100.000 rubli
- Aumentare la domanda effettiva della popolazione tramite aumenti salariali, pensionistici, l’incremento di borse di studio e di assegni familiari
- Aumentare notevolmente i finanziamenti per la costruzione di nuovi alloggi a prezzi accessibili
- Stanziare per l'agricoltura sino al 10% delle spese di bilancio.
- Ristabilire l’ordine nell’usufrutto dei terreni
- Stabilire alcuni sgravi fiscali per le piccole e medie imprese
- Ripristinare il sistema energetico unitario sotto il controllo statale
- Rilanciare l’industria meccanica
- Sviluppare con forza le infrastrutture legate alle comunicazioni e ai trasporti
- Aumentare in modo sostanziale di 2-3 volte la spesa per la ricerca e lo sviluppo.
- Garantire la protezione sociale per bambini e giovani

Ma è in particolar modo il settore bancario ad essere messo sotto accusa da Zyuganov.

I giovani hanno premiato il loro programma di rottura con lo stato di cose presenti, risultando l'unica vera alternativa allo strapotere del governo di Russia Unita. Sia il Partto Comunista Russo che il Partito Comunista Greco si stanno prendendo il giusto spazio mostrandosi alternativi e conflittuali al sistema. La nostra opposizione (per ora solitaria) contro il Governo Monti deve essere il nostro campo di  battaglia! Contro la macelleria sociale e il commissariamento della BCE: si riparte da qui. Per il lavoro, la sovranità nazionale e la giustizia sociale!

I cittadini sono oltraggiati dall'ingiustizia sociale crescente, dalla falsa "democrazia" e dalla costante falsificazione della volontà popolare. Sono estremamente indignati per la mancanza di opportunità di vita per i giovani e per la continua umiliazione che subiscono dal partito al potere (Zyuganov)

Andrea 'Perno' Salutari
Coordinatore provinciale Giovani Comunisti Torino 2.0


Fonte: Patria del Ribelle

No Tav, il conflitto è permanente

Per chi vive in Val Susa ciò che stupisce maggiormente sono i titoli dei giornali che urlano una qualche manifestazione Notav. Ieri è stata la volta del blocco del Tgv proveniente da Parigi la cui corsa è stata fermata a Bussoleno da circa mille manifestanti.
I valsusini, molti muniti di regolare biglietto che dà il diritto di poter stare sulla banchina, non hanno occupato i binari e la loro presenza ha impedito che la corsa del treno francese proseguisse verso Torino. Ma questa non è una notizia perché se non è proprio routine poco ci manca. Ben altre riflessioni invece dovrebbero emergere. Da circa sei mesi una comunità sta portando avanti una lotta determinata e quotidiana, e l'idea che ogni tanto un gruppetto di scalmanati più o meno numeroso si svegli e combini un guaio è risibile. Assomiglia alle assicurazioni che la coppia Virano-Ferrentino raccontavano ai giornali ed allo stesso Governo: situazione migliorata rispetto il duemilacinque. Il primo ultimamente tace perché conosce la reale gravità in essere. Il secondo è invece un enigma avvolto da un mistero: ex barricadero oggi ha posizioni ambigue sul progetto in sé, e molto critiche sul movimento che lui stesso ha contribuito a creare e che, in buona parte, lo ha abbandonato al suo destino.

Il conflitto in val Susa è quindi permanente da circa sei mesi e non si vedono segni di stanchezza. Anzi. Se è vero che le marce pure e semplici sono meno numerose che in passato è bene sottolineare che l'adesione alla disobbedienza civile, e anche qualcosa in più, è diventata di massa. Sei anni fa i Tgv provenienti dalla Francia venivano bloccati da cento persone. Ieri erano almeno dieci volte di più.
Il cantiere luna park centra relativamente con questa recrudescenza della lotta. Impatto maggiore arriva dalla quotidianità. I posti di blocco nella valle sono pesanti, la presenza di una cesoia nel bagagliaio necessita di mille giustificazioni, e le denunce sono ormai dozzine. Si aggiungano gli scontri verbali con militari talvolta arroganti e aggressivi. Anche per queste ragioni i treni vengono bloccati e la gente va tutti i giorni alla baita presidio facendo chilometri di sentiero in montagna, solo per fare due esempi. Basti pensare al Gruppo Cattolici per la Valle che quotidianamente raggiunge il pilone votivo adiacente le reti del cantiere e prega di fronte ai poliziotti robocop che osservano basiti.
Ci sono poi le barricate di carta che la Comunità Montana guidata da Sandro Plano continua a produrre. Per giovedì invece il menù prevede una fiaccolata che vedrà partecipare, minimo, diecimila persone. Ancora: tutti i paesi che si susseguono lungo le due statali che attraversano la Val Susa sono tappezzati di bandiere Notav, innalzate non solo da singoli cittadini ma dalle stesse amministrazioni comunali. L'idea quindi che una volta iniziati i lavori la valle digerisse il boccone si è rivelata l'ennesimo atto di sciatteria istituzionale. Il governo Monti ripete ciò che fece Berlusconi. Ad entrambi la val Susa chiede solo l'apertura di un dialogo sull'utilità dell'opera, cosa si sta aspettando?
Maurizio Pagliassotti

Fonte: Liberazione

Presidio contro il viraggio politico del governo di Ollanta

PRESIDIO CONTRO LE TRANSNAZIONALI DELLA FAME, CONTRO LE CORPORAZIONI DELLE MINIERE D'ORO, CONTRO IL VIRAGGIO POLITICO DEL GOVERNO DI OLLANTA: DIVENUTA OGGI CON TENDENZA DI DESTRA CONSERVATRICE!

Compagni è molto importante la solidarietà internazionale. Il popolo Peruviano è al limite di essere governato con una chiara tendenza fascista. Hanno cambiato la alleanza politica, la sinistra è stata alo...ntanata dal governo per stabilire un'alleanza non scritta con i militari e con il fujimorismo. Il popolo si alza contro questa linea politica ed economica che è soltanto servile alle grande corporazioni dell oro e delle miniere. SI STANNO FORMANDO LE BASI D'UNA DITTATURA !! AGIRE OGGI INSIEME AL POPOLO E LE SUE ORGANIZZAZIONI UN DOVERE MILITANTE E INTERNAZIONALISTA !

Giovedí 15 dicembre
dalle 10
Davanti al Consolato Peruviano a Torino
Via Pastrengo 29

Peru': una speranza perduta

PERÚ: UNA SPERANZA CHE SI DILUISCI NELLE TORTUOSE PREPOTENZA DEI GRANDI CAPITALISTI DELLA MINERIA E DEI LORO COMPLICI MILITARI.

Il popolo riesce finalmente a portare al governo un gruppo politico che nella loro ideologia dichiarava apertamente un governo di Concertazione, d'unità nazionale, partendo d'una chiara tendenza di sinistra, con uomini e militanti che fieri di questa alternativa politica d'un nazionalismo verso la costruzione d'una Patria Libera, di conquista dei diritti, di ridistribuzione della ricchezza, di lotta aperta ai corrotti, di riconquista della soberania affitata ai grandi capitalisti, di sollevare la volontà popolare per costruire un nuovo Perù vicina ai più deboli, alle vittime degli sfruttatori. Questo progetto politico si era denominato "LA GRANDE TRANSFORMACIÓN". E su questo progetto grandi settori popolari, organizzazioni sindacali, partiti politici di sinistra diedero il loro sostegno che si traduce nella alleanza "GANA PERÚ".

In 4 mesi di governo il progetto iniziale si sbricciola lentamente e corre verso una tendenza di dominio politico della destra. Nei diversi ministeri, anzitutto in quella più strategica come quella di economia, si nomina un ortodosso della economia capitalista e di appartenenza politica di destra, ugualmente come presidente della banca di riserva del Perú viene nominato un'altro sostenitore dell sistema capitalista. Cosi si va avanti....si fanno realtà certe promesse elettorali come la pensione 65, la legge della consulta previa - legge che obbliga al governo di consultare al popolo prima di prendere decisioni su ogni atto che può essere dannoso contro la popolazione- ...e altre pocche cose per accontentare il popolo. Non ci sono segnali di contrasto o di critica al sistema capitalista sulla quale si fonda la economia Peruviana in questo percorso, cacciano via poco a poco tanti assesori politici di sinistra che erano nel governo e sono sostituiti per assesori militari.

Diversi conflitti sociali iniziano a manifestarsi pubblicamente, tanti sono affrontati con dialogo, altri a puro stile militaresco repressivo, tanto cosi che muore un manifestante ucciso da una pallotolla sparata dalle forze repressive. Il conflitto più grave e di dimensione regionale esplode nella zona del Nord, in Cajamarca. Il popolo Cajamarquino si alza, va in sciopero generale indefinito in protesta e rifiuto del progetto minerario delnominato CONGA che il più grande consorzio minerario di strazione di oro nell mondo, la norteamericana Newmont, voleva portare avanti. Questo consorzio minerario presente in Cajamarca da 18 anni con un progetto chiamato YANACOCHA non è ben accettato dalla popolazione perchè hanno portato distruzione all ecosistema, hanno sviluppato alti livelli di contaminazione e hanno sempre sottomesso il popolo, non hanno portato sviluppo economico per la regione...loro si sono fatti sempre più ricchi e il popolo sempre più povero, con la terra non più utilizzabile, con l'acqua contaminata, con popolazioni che vivono gli effetti delle modificazioni nell loro DNA, per tanti morti precoci, alti livelli di tumori...questo modo di fare investimento non va per il popolo e non dovrebbe ne anche andare per il governo che si proclamò difensore del popolo, del ecosistema, della soberania nel periodo elettorale...caso vuole che il governo da approva e da luce verde alla esecuzione del progetto CONGA - questo progetto prevede un allargamento territoriale della estrazione dell oro, causando inevitalmente la distruzione di tutti i laghi naturali che sono fonte di rifornimento naturale d'acqua per la popolazione e per il ciclo vitale della fauna e flora del territorio Cajamarquino. A questo punto i movimenti di protesta diventano più forti, le manifestazioni di solidarietà a livello nazionale crescono. Come risposta il governo dichiara dal 05 di dicembre COPRIFUOCO NELLA REGIONE IN LOTTA! per un periodo di 60 giorni. Pochi giorni dopo, sono detenuti un gruppo di dirigenti della lotta del contro il progetto CONGA e sono tenuti rinchiusi nella direzione antirrorista per 10 ore. Il 29 di novembre 6 campesinos di Cajamarca sono feriti da spari d'arma di fuoco da parte delle forze repressive del governo. In mezzo a questo conflitto arriva in Perú la direttrice del Fondo Monetario Internacional Christine Legardè che dichiara allegramente che il Perú è un paese stabile economicamente e che il FMI lo vede come un buon candidato dove fare dei grandi investimenti.

Come se questo non bastasse, sabato 10 dicembre rinuncia il presidente del consiglio dei ministri, militante e fondatore del Partito Nacionalista SALOMON LERNER grande sostenitore della concertazione con la sinistra e settori progresisti, OLLANTA HUMALA non ha dubitato un secondo ad accetare la sua rinuncia e nominare immediatamente un ex tenente generale del esercito come il suo successore: OSCAR VALDEZ, di oscura tradizióne militare e sposato con la figlia d'un ricco imprenditore minerario. Ricordiamo che questo individuo è stato nei primi 4 mesi di questo governo ministro del'interno, ossia colui chi ha ordinato tutte le misure repressive contro ogni tipo di manifestazioni sociale e la morte d'un manifestante e dei tanti feriti. Il Nuovo Consiglio di ministri oggi è totalmente di tendenza tecnocratica e di destra conservatrice, dove tutti i componenti di sinistra e del partito di alleanza di concertazione nel parlamento sono stati allontanati, rimanendo senza una reale maggioranza in parlamento. Questo nuovo spazio politico crea una grossa posibilità di alleanza con il fujimorismo o con un colpo di stato. Chiaro viraggio fascista.

Il momento sociale non ha delle belle prospettive se questa è la linea di governo considerando che gli unici che hanno salutato questi avvenimenti sono gli esponenti della destra e della imprenditoria locale e internazionale. Il pericolo di diventare un regime di carattere fascista è molto vicino e su questo che noi chiamiamo a stare attenti e sempre solidali con la lotta del popolo peruviano, in più per il popolo Cajamarquino che in questo momento vive nell coprifuoco militaresco.  

giovedì 8 dicembre 2011

Giovani comunisti russi

La clamorosa e per molti inaspettata sconfitta di Russia Unita, il partito di Putin, alle elezioni politiche della Federazione Russa, è una dato politico evidente, netto, che non può essere camuffato nonostante i numerosi brogli che hanno comunque consentito al padre padrone della Russia di riconquistare la maggioranza della Duma. Ironia della storia, è Putin che cosi come fu per Eltzin, che incarna la continuità con i tratti autoritari dell’ex sistema sovietico, mentre a difendere e a manifestare per la democrazia sono i comunisti russi, il Partito guidato da Ghennadi Zyuganov, l’unica forza politica popolare e di massa che in questi due decenni ha saputo resistere alle svolte autoritarie del regime e a presentarsi come alternativa possibile allo strapotere dei nuovi oligarchi di Mosca.

In pochi ricordano che l’ascesa al potere di Eltzin prima e del suo delfino Putin poi sia stata aperta dalle cannonate contro il Parlamento russo. Zjuganov ha usato le seguenti parole per descrivere quanto successo: «Per quanto riguarda le elezioni stesse, devo dire che sono state senza precedenti per la quantità di brogli, per le pressioni esercitate e per la perfetta messa a punto delle falsificazioni, che hanno fatto impallidire tutti i successi di Eltsin con i suoi assistenti e maghi della pirotecnica». Secondo il PCFR infatti, i voti presi sarebbero oltre il 30 e non il 20 come assegnato dalla commissione elettorali.
Il potere di Putin si è consolidato nell’ultimo decennio grazie a un misto di populismo, di nazionalismo e di benefici dovuti più che a capacità di governo dell’economia, dall’aumento delle entrate statali dovuto all’aumento dei prezzi delle materie prime, come gas e idrocarburi, che Mosca ha per un periodo difeso da ulteriori privatizzazioni e che ha utilizzato per riassestare la disastrata situazione economica ereditata dalla shock terapy con cui Eltzin aveva svenduto il paese. Una terapia economica criminale, quella dei liberisti fondamentalisti, che secondo uno studio della rivista scientifica Lancet , ha prodotto nell’ex Urss circa un milione di morti.

Ma il tutto mantenendo una politica economica liberista, per cui la Russia di Putin e Mednenev ha mantenuto i tratti di una società profondamente diseguale. Pochi grandi ricchi e tantissimi poveri. Le disuguaglianze sociali rimangono enormi, così come il collasso dello stato sociale sovietico ha lasciato milioni di persone prive di quelli che erano diritti sociali garantiti dal sistema.

La situazione si è aggravata nell’ultimo bienno con la crisi economica, che ha visto il prodotto interno della Russia crollare nel 2009, e crescere fra la popolazione il malcontento così come le preoccupazioni per il futuro, e per le quali non è bastata la retorica nazionalista ad evitare il crollo elettorale. Un crollo che ha come prima conseguenza la impossibilità per Putin di poter cambiare la Costituzione, non avendo la maggioranza qualificata necessaria per farlo da solo.
La vittoria dei comunisti non nasce inaspettata. Non può essere nemmeno derubricata, come fanno molti superficiali analisti di casa nostra, come semplice sentimento nostalgico dei tempi che furono. Anche in Russia, come nel resto d’Europa, ritorna con forza la questione e la domanda di giustizia sociale.
Sono tantissimi infatti i voti di giovani e giovanissimi al Partito comunista russo, di ragazzi e ragazze che non hanno vissuto nell’Unione Sovietica. Secondo il PCFR sette giovani su dieci hanno votato per i comunisti. Ora la partita si sposta a Marzo, alle prossime elezioni presidenziali.
Quella che sembrava una passeggiata per Putin, si presenta invece ora come una sfida difficile. Il nervosismo del potere è evidente nella reazione poliziesca di queste ore. E a sfidare Putin e il suo blocco di potere ci sarà Zjuganov , ci saranno , ancora una volta, i comunisti.

Fabio Amato - Liberazione

lunedì 5 dicembre 2011

LACRIME E SANGUE....MA SOLO PER I LAVORATORI E PENSIONATI

Pensioni: intervento sbagliato. Non si adeguano all’inflazione per due anni (salvo quelle sotto 960 euro). Un salasso recessivo e iniquo. La quota 40 salta gli uomini vanno a 42 anni le donne a 41.

Evasione fiscale: intervento debolissimo. La riduzione della soglia della tracciabilità a 1000 euro è uno specchietto per le allodole. Mancano del tutto interventi strutturali per combattere l’evasione, per esempio la reintroduzione dell’elenco clienti/fornitori. Sorprende il mantenimento in circolazione delle banconote da € 500, che facilitano purtroppo il pagamento delle tangenti, la movimentazione della droga e il trasferimento dei capitali in Svizzera.

Aumento Iva: intervento recessivo che colpisce le fasce deboli e non viene compensato da misure di sostegno del reddito.

Interventi per la crescita: deboli e frammentati. La riduzione dell’Irap per esempio è destinata a finire in gran parte nelle tasche degli imprenditori (tra cui purtroppo tanti evasori) e non per migliorare la competitività delle aziende esportatrici.

In sintesi:
1. È una manovra fortemente recessiva che rischia di innescare un circolo vizioso di “avvitamento recessivo” che ha distrutto la Grecia.
2. È una manovra fortemente iniqua. Un pensionato che percepisce 1000 euro al mese con una casa di proprietà perderà in due anni più di 10% del suo potere d’acquisto. Un imprenditore che evade, invece, potrebbe addirittura guadagnare con la riduzione dell’Irap.

All’Italia serve una manovra forte di ristrutturazione della spesa e di rilancio, ma non questa!

Nelle prossime settimane arriverà la mazzata sul mondo del lavoro, per cui molto facilmente libertà di licenziamento ed altre facilitazioni per gli imprenditori.

Una finanziaria targata BCE che serve a rastrellare soldi dai soliti , colpisce i ceti medio bassi i lavoratori dipendenti.
Impedire con ogni mezzo che il governo Monti si consolidi!
Sostenere ogni forma di opposizione e di lotta contro il governo Monti!
Boicottare tutti i partiti politici che voteranno oppure si asterranno a questa finanziaria.

Buonavita Francesco

martedì 29 novembre 2011

Sovranità nazionale e globalizzazione

di Spartaco Puttini per Marx21.it
Nulla è più prezioso dell’indipendenza e della libertà” [Ho Chi Minh]

In ultima analisi, la lotta nazionale è una questione di lotta di classe” [Mao Tse-Tung]

La sovranità [1] nazionale consiste nell’indipendenza non solamente formale di uno Stato che, non riconoscendo alcuna autorità al di sopra di sé, gode della possibilità di decidere il proprio destino.
In teoria tutti gli Stati godono degli stessi diritti e delle prerogative della sovranità. Concretamente però la differenza di “potere” che corre tra essi fa sì che la sovranità delle nazioni più deboli sia spesso menomata o calpestata dalle Grandi Potenze. Nonostante le pregevoli intenzioni, le nobili idee e gli stessi trattati l’unico metro che conta nelle relazioni internazionali è il potere.

Ciò ha assunto particolare evidenza con l’età dell’imperialismo, quando i paesi a capitalismo avanzato si sono spartiti il resto del mondo. Anche a seguito della decolonizzazione occorre notare che l’accesso all’indipendenza politica da parte delle nazioni vittime del colonialismo è stata, nella maggior parte dei casi, limitata solamente alla sfera formale, restando quei popoli legati alle pesanti catene della dependencia economica nei confronti dell’Occidente.

Ai nostri giorni il tentativo degli Stati Uniti di imporre al resto del mondo il proprio ordine unipolare rende particolarmente acuta la questione nazionale, che è la questione della difesa della sovranità nazionale e dell’indipendenza (non solo formale) del proprio paese e degli altri paesi in lotta contro l’imperialismo. La questione nazionale è la questione cruciale della nostra epoca.

- Le armi dell’imperialismo e la questione nazionale
Occorre tenere presente che qualsiasi sistema è la risultante delle interazioni tra i soggetti che lo compongono e queste interazioni sono regolate dai rispettivi rapporti di forza. Pertanto chi è al centro del sistema modella la periferia del sistema a seconda dei propri esclusivi interessi e non in ragione di presunte soluzioni “migliori”, nel senso neutrale del termine. Le Potenze egemoniche tendono ad inseguire i propri esclusivi obiettivi cercando di piegare la resistenza delle forze che si oppongono loro.

Nella vita internazionale a volte i rapporti di forza vengono regolati sul rude terreno dello scontro militare. Ma il più delle volte non è così. A volte basta ricorrere alla minaccia dell’uso della forza per costringere i paesi più deboli a piegarsi. Altre volte le Potenze “centrali” del sistema giocano altre carte: dal condizionamento economico, a quello politico tramite vere e proprie quinte colonne opportunamente preparate; oppure sfruttando le linee di frattura presenti all’interno della società presa di mira per destabilizzarla e costringerla alla resa; oppure ancora riescono ad ottenere la “subordinazione volontaria” grazie ad una vasta ed efficace campagna mediatica e culturale che convince l’élite e secondariamente l’opinione pubblica del paese che deve essere fagocitato della giustezza delle politiche “suggerite”.

Come ha notato il geopolitico argentino Marcelo Gullo, all’interno della nazione sulla quale viene esercitata la pressione da parte del centro imperialista si assiste sempre al contrapporsi tra due fazioni. Da un lato i così detti sostenitori del “realismo” collaborazionista, pronti ad accettare l’imposizione dell’egemone visto che i rapporti di forza “costringono” alla capitolazione. Queste tendenze finiscono con l’affidarsi alla buona volontà dell’egemone stesso, rinunciando a fette sostanziali di sovranità nazionale. Dall’altro lato si collocano i sostenitori di un realismo “liberazionista”, che rifiutano di cedere ai ricatti del centro egemonico proprio in virtù delle conseguenze inaccettabili che implicherebbe la cessione della sovranità e che si adoperano per impostare un insieme di politiche capaci di mobilitare le risorse del proprio paese per preservarne l’indipendenza [2].

E’ importante sottolineare che tutti i paesi che in passato sono riusciti a sfuggire da una condizione di sudditanza o comunque da una posizione periferica nel sistema hanno dovuto, giocoforza, basare la loro politica di sviluppo sull’interventismo statale per sfuggire ai tentacoli delle Potenze che occupavano il centro del sistema, le quali disponevano ovviamente della primazia economica e finanziaria. (Questo a prescindere dal sistema economico dei paesi a cui è riuscito il tentativo di emancipazione, fosse esso il modello capitalistico scelto da Germania e Giappone alla fine dell’Ottocento o quello socialista-pianificato scelto dall’Unione Sovietica o, ancora, quello socialista di mercato scelto dalla Cina).

Il potere infatti, non è solo il mezzo con cui le Potenze imperialiste cercano di schiacciare i paesi più deboli ma è anche il mezzo di cui i paesi più deboli devono cercare di dotarsi per non soccombere davanti agli aggressori.

- La crisi dello Stato nazionale è solo un mito
Ma è ancora possibile cercare una strada di sviluppo autonomo dalle forze dominanti del sistema internazionale nell’attuale contesto della globalizzazione?
Nel corso degli ultimi due decenni è stato affermato con forza che l’attuale fase della globalizzazione avrebbe posto in crisi irreversibile lo Stato nazionale moderno, svuotandolo di potere e rendendo superflue le sue prerogative. Questa affermazione ha conosciuto una grande fortuna. In realtà le cose non stanno affatto così.

La crescente interdipendenza tra le nazioni non conduce affatto alla scomparsa o alla crisi dello Stato nazionale in quanto tale e non ne mette in discussione automaticamente le prerogative (a partire dalla sovranità). Come sempre è stato nella storia vi sono entità statali che collassano e che si dissolvono. Ma questo avviene sotto il peso dell’azione di altre Potenze più forti. Le prerogative degli Stati nazionali sono pertanto ancora valide. Le stesse istituzioni finanziarie internazionali (FMI e Banca mondiale) non sono altro che i tentacoli della Potenza egemone (gli Usa) e, in subordine, dei suoi più stretti alleati (la Gran Bretagna) [3].

Basti pensare alla forza propulsiva che hanno assunto le economie dei paesi emergenti in gran parte proprio grazie al rifiuto dei disastrosi piani del FMI e all’adozione di politiche economiche dirigiste, che attribuiscono un grande ruolo all’intervento qualificato dello Stato in economia. L’esempio di Venezuela, Argentina e quello di altri paesi latinoamericani è particolarmente eloquente. Sempre in Sudamerica possiamo notare come il processo di integrazione del continente, o di alcune sue aree, tramite l’Unasur o l’Alba, non comporti assolutamente una cessione di sovranità da parte degli Stati membri. Anzi, queste organizzazioni, proprio perché rappresentano un contrappeso alle forze mondializzanti dell’Anglo-America, garantiscono la difesa della sovranità nazionale da processi di svuotamento e di imposizione di un neocolonialismo post-moderno.

L’avere accettato supinamente il luogo comune della inevitabile crisi dello Stato-nazione e quindi della naturale cessione della sovranità nazionale è stato un grave errore, specie da parte di settori della sinistra occidentale che hanno così perso la bussola trovandosi drammaticamente disarmati ed in balia dell’imperialismo (la cui esistenza avevano per ironia della storia rimosso).

- Le varie facce della questione nazionale
La questione nazionale può essere declinata in vari modi. Dal punto di vista più propriamente politico concerne la difesa dell’indipendenza e implica l’adozione di una politica estera in linea con i propri interessi nazionali. E’ in base ad essi che vanno stabiliti paritetici legami di partenariato con i paesi vicini. Per l’Italia si tratta di essere autonoma dalle scelte atlantiche, di non lasciarsi trascinare in conflitti d’aggressione, di uscire dalla Nato, strumento col quale gli Usa controllano l’Europa. Riveste particolare importanza stabilire un equo rapporto di partenariato con i paesi arabo-islamici del Mediterraneo e con tutte le realtà in lotta contro l’imperialismo. Diventa vitale incaricarsi della costruzione di un’altra Europa, diversa dalla Ue e oltre la Ue (cioè aperta alla Russia e all’Eurasia).

Dal punto di vista economico implica il rifiuto dei fallimentari paradigmi neoliberisti che hanno impoverito la nazione. La coerente adozione della questione nazionale suggerisce di basare lo sviluppo del paese su un qualificato intervento pubblico in economia. Contro i disordini e gli sprechi insiti nell’anarchia della produzione tipica del capitalismo e contro il nanismo che impedisce la ricerca e l’innovazione tecnologica occorre rilanciare la programmazione e la proprietà statale dei settori strategici (che se lasciati in mano privata possono rappresentare un’ipoteca pericolosa per lo sviluppo del paese e per lo stesso esercizio della democrazia). Per controllare le leve dell’economia ed orientare lo sviluppo è necessario promuovere la nazionalizzazione del settore creditizio (non delle sue perdite). Anche lottare contro l’evasione dei ricchi e dei privilegiati per ottenere una più equa ripartizione del carico fiscale è in fondo un aspetto della questione nazionale. Sia perché consente allo Stato di recuperare le risorse di cui abbisogna per impostare le politiche al servizio della comunità nazionale, sia perché colpendo i ceti privilegiati permette di salvaguardare il potere d’acquisto delle masse popolari.

- Classe, Sovranità nazionale e democrazia
Se uno Stato non è libero di scegliere il proprio destino e diviene semplicemente l’oggetto del gioco altrui significa che il popolo di quello Stato non potrà mai decidere davvero nulla di rilevante in merito alla conduzione dei suoi affari, perché vi sarà sempre un’autorità esterna a dettargli l’agenda. La sovranità nazionale, l’indipendenza sostanziale della propria patria, è condizione necessaria anche se non sufficiente dello sviluppo della democrazia e del protagonismo delle classi popolari, che sono la nazione.

Ne è stato ben cosciente il movimento comunista internazionale nel corso del Novecento, come si evince dall’impegno profuso per sostenere le lotte di liberazione dei popoli contro l’imperialismo. E’ in questo contesto che Ho Chi Minh sostiene che “nulla è più prezioso dell’indipendenza e della libertà”. Ed è sempre in questo contesto che Mao, durante la guerra di liberazione dall’occupante giapponese, sostiene che “in ultima analisi la lotta nazionale è una questione di classe”. Ma basti pensare al fenomeno della Resistenza in Europa (e in Italia) durante il secondo conflitto mondiale. La stessa svolta di Salerno diviene sinceramente incomprensibile se considerata al di fuori della rilevanza assunta all’epoca dalla questione nazionale.

Se un paese non è sovrano non può ovviamente darsi istituzioni democratiche, per limitativo che possa essere il significato che si attribuisce al termine “democrazia” o per limitata che sia la sua declinazione. L’ingerenza e la limitazione della sovranità implica il venir meno della possibilità di un corretto esercizio democratico. Quanto meno esso diviene un inutile orpello.
Non a caso nelle forme storicamente conosciute di cessione della sovranità la democrazia (anche se considerata nel senso assai limitato di consultazione elettorale) non svolge alcun ruolo dirimente e viene accantonata, sospesa o svuotata a seconda delle necessità del vero “sovrano”. Tale deriva è oggi evidentissima nel processo di costruzione europea.

- La crisi italiana
Nell’Ue ci si è spinti certamente avanti nel delegare a commissioni sovranazionali molte delle prerogative dello Stato sovrano. Questo ha posto in posizioni chiave una burocrazia tecnocratica legata a doppio filo alla finanza transnazionale anglo-americana ed ai centri atlantici ed ora questa burocrazia gode di competenze che sfuggono ad una gestione democratica. L’europarlamento non è altro che un’obesa sovrastruttura priva di potere reale ed attraversata dalle lobbies. La presente crisi che ha investito l’eurozona dimostra la debolezza di una moneta sovranazionale sulla quale non si può esercitare nessuna azione rilevante da parte degli Stati membri. Questo limite è oggi sotto gli occhi di tutti.

L’affondo della finanza anglo-americana ai paesi deboli dell’eurozona rappresenta una manovra concertata per affossare l’Euro e tenere in piedi il dollaro come unica moneta di riserva internazionale al fine di puntellare la barcollante egemonia americana. Si tratta di un complotto?
Assolutamente no, si tratta di politica. Ognuno ha i suoi interessi. Tutto dipende se si riesce a capire quali sono.

La crisi dell’Italia potrebbe in prospettiva far deflagrare la UE, le cui debolezze strutturali sono messe a nudo a partire dalla radicale differenza di interessi tra il nucleo franco-tedesco e i paesi periferici o semi-periferici dell’Unione. L’atteggiamento tedesco si spiega probabilmente col fatto che il grande capitale teutonico ha deciso, da sempre, di considerare il resto dell’Europa come una propria semicolonia economica. (Ciò che non è riuscito ai panzer è riuscito in parte alla Bundesbank?). Pare in parte orientato ad arraffare tutto ciò che può prima di convertirsi alla possibile dissoluzione della Ue in un grande mercato transatlantico integrato. Il progetto sarebbe sostanzialmente un’ALCA rivolta all’Europa. Quella stessa Alca che l’America meridionale seppe respingere dopo il tracollo argentino e che ora potrebbe attenderci al varco, in fondo a destra, se da questa crisi non ne usciremo in altro modo.

Per uscire dalla crisi la BCE e quell’impareggiabile collezionista di disastri economici che è il Fondo Monetario Internazionale ci chiedono di proseguire ancor più celermente sulla strada che ci ha portato sull’orlo del baratro. Perché?

Perché il loro obiettivo, ed in questo il capitale finanziario italiano e la Confindustria sono sostanzialmente convergenti con i poteri forti di Francoforte e d’oltreatlantico, è raggranellare tutto ciò che possono. Facendo soldi sulla speculazione nell’immediato, portando l’Italia a cedere parte delle sue rilevanti riserve di oro (le quarte al mondo) e a svendere le imprese a partecipazione statale (ENI, Finmeccanica) che tengono ancora in piedi il paese e che potrebbero rappresentare la base produttiva dalla quale ripartire per risalire la china. Infine spingendo per far applicare ancor più drasticamente le fallimentari ricette neoliberiste rifilateci in passato allo scopo di modellare un mercato del lavoro docile e schiacciato in fondo alla piramide della divisione internazionale del lavoro. Il tutto porterebbe l’Italia dalla crisi al declino.

L’uomo che è stato incaricato di presiedere con un governo tecnico di commissariamento antinazionale ed antidemocratico (non nella forma, ma nella sostanza), Monti, ha un profilo preciso: quello del tecnocrate cresciuto negli Usa appunto, membro di spicco della Trilateral, vicino al solito, immancabile, Brzezinski. Paiono inutili ulteriori presentazioni.

Ecco perché questa è una battaglia per la difesa dei diritti sociali, per lo sviluppo economico del paese ed è contemporaneamente una battaglia antimperialista, una battaglia per la difesa della sovranità nazionale.
Una corretta declinazione della questione nazionale in questa situazione concreta dovrebbe portare a sollevare seri dubbi sulla legittimità della pericolosa ingerenza della BCE nelle nostre faccende domestiche.

NOTE
1 Sovranità = “carattere assoluto e incondizionato di un potere non sottomesso ad alcuno altro e investito della più alta autorità”. Attributo essenziale dello Stato. In regime rappresentativo è attributo della nazione / del popolo, il quale legittima l’autorità degli organismi supremi dello Stato che esercitano il potere in suo nome. Si veda: Dizionario di storia e geopolitica del XX secolo; a cura di Serge Cordellier, Milano Mondadori, 2001

2 M. Gullo, La costruzione del potere : storia delle nazioni dalla prima globalizzazione all’imperialismo statunitense; Milano Vallecchi, 2010

3 Rimando in proposito a: M. Casadio, J. Petras, L. Vasapollo, Clash! Scontro tra Potenze: la realtà della globalizzazione; Milano Jaca Book, 2004. Si veda in particolar modo il seguente passaggio: “I difensori della tesi di un mondo senza nazioni […] non riescono a capire che le istituzioni finanziarie internazionali non sono una nuova e più alta forma di governo al di là dello Stato-nazione, non capiscono che esse sono istituzioni che derivano il proprio potere dagli Stati imperiali”; p.32

Fonte: Marx XXI

Gli anticapitalisti, le nazioni e l’internazionalismo

di Stefano D’Andrea

E’ stimolante rileggere il Manifesto del Partito Comunista a piccole dosi. Brani isolati. Pochi pensieri. Per lo più stringati ragionamenti su innumerevoli concetti importanti della vita, della politica, della società.

Alcuni brani appaiono totalmente condivisibili. Il giudizio di valore o il giudizio storico è rimasto identico. Altri brani necessitano di un semplice adeguamento linguistico. In particolare i termini “borghese” e “borghesia” non sono adatti a descrivere alcun fenomeno del mondo moderno, perché, per molti versi, la borghesia alla quale Marx ed Engels alludevano non esiste più. Anche il termine proletariato, con riguardo alle realtà politiche dell’occidente sviluppato, è poco calzante. Non perché non esistano realtà fenomeniche definibili mediante tale termine. Bensì perché esso designa una parte del tutto, che è costituito dai lavoratori – anche autonomi, oltre che subordinati- anzi, più precisamente, dagli spiriti anticapitalistici. Molti lavoratori, infatti, non sono minimamente contrari alla suprema regola della valorizzazione del capitale. Basta però sostituire il termine che appare indebolito con un termine di uso più comune (per esempio, secondo il mio avviso,“proletariato” con “partito anticapitalista”) ed ecco che la frase ha un significato chiaro e sovente pienamente condivisibile. Altri brani non ci trovano d’accordo e spesso non ci hanno mai persuaso. Con riguardo a questi brani è piacevole fissare il nostro pensiero prendendo le distanze da due giganti. Lo stile del Manifesto è limpido: obbliga a chiarire il dissenso e impegna ad adottare uno stile altrettanto cristallino.

C’è un brano del Manifesto del Partito Comunista appositamente dedicato al concetto di nazione:

“Si è inoltre rimproverato ai comunisti di voler liquidare la patria, la nazionalità.
I lavoratori non hanno patria. Non si può togliere loro ciò che non hanno. Dovendo anzitutto conquistare il potere politico, elevarsi a classe nazionale, costituirsi in nazione, il proletariato resta ancora nazionale, ma per nulla affatto nel senso in cui lo è la borghesia.
Le divisioni e gli antagonismi nazionali fra i popoli tendono sempre più a scomparire già con lo sviluppo della borghesia, con la libertà del commercio, con il mercato mondiale, con l’uniformità della produzione industriale e delle condizioni di vita che ne derivano.
Il potere proletario li farà scomparire ancora di più. L’azione comune almeno dei paesi più civilizzati è una delle prime condizioni della sua liberazione.
In tanto in quanto viene eliminato lo sfruttamento del singolo individuo da parte di un altro, svanisce anche lo sfruttamento di una nazione da parte di un’altra.
Con l’antagonismo delle classi all’interno delle nazioni cade la reciproca ostilità fra le nazioni”.

Il brano stupisce e spinge a chiedere: quanti comunisti lo hanno letto con attenzione? Esso contiene affermazioni sistematicamente negate da moltissimi comunisti delle ultime due generazioni.

Intanto Marx ed Engels stanno difendendo i comunisti dall’accusa “di voler liquidare la patria, la nazionalità”. Essi non scrivono “è vero”, precisando poi in che senso l’accusa è fondata, come invece fanno con riguardo ad altre accuse rivolte ai comunisti. Al contrario, replicano: non è vero che i comunisti vogliono liquidare la patria, la nazionalità.

Paradossalmente, nella forma dello slogan (“il proletariato non ha nazione”), ha avuto successo l’affermazione secondo la quale “I lavoratori non hanno patria”. Ma essa o è smentita dal contesto linguistico – direi da tutte le altre proposizioni – ; oppure, più esattamente, va intesa in senso molto lato; è un’iperbole che vuole contestare l’idea di nazione delle classi dominanti, non l’idea di nazione in sé. Infatti, quando gli autori iniziano l’analisi, assegnano al concetto di nazione un ruolo imprescindibile e fondativo: “Dovendo anzitutto conquistare il potere politico, elevarsi a classe nazionale, costituirsi in nazione, il proletariato resta ancora nazionale, ma per nulla affatto nel senso in cui lo è la borghesia”.

I comunisti, dunque, sono comunisti di una nazione: vogliono che la nazione sia comunista. Le nazioni sono perenni e ci saranno anche quando i comunisti avranno preso il potere. Sono “Le divisioni e gli antagonismi nazionali fra i popoli” che, secondo Marx ed Engels, tendono a scomparire; non le nazioni. Già lo sviluppo del mercato mondiale tenderebbe a questo risultato – e qui non direi che il carattere futurologico del pensiero Marxiano abbia colto nel segno -; “Il potere proletario li farà scomparire ancora di più”. Sarebbero scomparsi gli antagonismi nazionali. Non le nazioni: “svanisce anche lo sfruttamento di una nazione da parte di un’altra”. Svanisce lo sfruttamento di una nazione sull’altra. Non le nazioni, che anzi, nell’ottica del Manifesto, permangono.

Dunque i comunisti (oggi direi più semplicemente i membri del partito anticapitalista) sono e non possono che essere nazionali, perché aspirano a conquistare il potere politico e ad elevarsi a classe nazionale – altrimenti il tentativo fallirebbe ben presto. L’organizzazione politica dei comunisti, secondo Marx ed Engels, non sarebbe stata aggressiva nei confronti delle altre nazioni. Perciò, il mondo ideale, immaginando che i comunisti avessero preso il potere in ogni nazione – si fossero elevati ovunque a classe nazionale –, sarebbe stato un mondo di nazioni pacifiche.


E l’internazionalismo che cos’è? E’ “l’azione comune” dei proletari delle varie nazioni, la quale “è una delle prime condizioni” della liberazione del proletariato (oggi degli anticapitalisti). Nel Manifesto del Partito Comunista non vi è un progetto paragonabile alla Ummah che gli islamisti internazionalisti vorrebbero ricostruire. Questi ultimi sono talvolta contrari agli stati nazionali, perché quegli stati – quei confini, quei regnanti e quelle nazioni – sono stati imposti dalle nazioni imperialistiche e colonialistiche straniere. Dunque gli islamisti internazionalisti, oltre a voler ricostituire il califfato (l’unità politica superiore) che copra tutti i terreni dell’islam (in senso stretto), vorrebbero o sarebbero disposti anche a modificare i confini delle unità politiche derivate o secondarie. Niente di tutto ciò emerge dal brano del Manifesto del Partito Comunista appositamente dedicato alle nazioni. Marx ed Engels non pensano ad un super stato (uno stato mondiale o universale) comunista; e non contestano le ragioni e le lotte in forza delle quali erano sorti gli stati nazionali europei – d’altra parte, Engels aveva combattuto sulle barricate per la creazione della Germania. “L’azione comune” è la solidarietà internazionale; solidarietà di pensiero e di azione. Allora perché i proletari di ogni nazione conquistassero il potere nella loro nazione; e oggi perché il partiti anticapitalisti conquistino il potere nelle rispettive nazioni.

Quale deve essere oggi la linea politica del partito anticapitalista rispetto all’idea di nazione? Credo che debba essere, nelle linee essenziali, quella tracciata nel Manifesto del Partito Comunista, la quale, paradossalmente, non ha nulla a che vedere con quella seguita, generalmente, dai comunisti delle ultime due generazioni.

Dunque l’ideale è che gli anticapitalisti si facciano classe nazionale e che proliferino nazioni anticapitaliste. L’avversione dei comunisti delle ultime due generazioni per il concetto di nazione è ingenua, frutto di posizioni irrealistiche, contraria alla storia dei comunisti (quando erano veramente comunisti) e generatrice di un universalismo falso che non consente la critica della globalizzazione. Un universalismo che non preme per la nascita di una forte volontà di ridurre gli scambi internazionali (i quali, sovente, hanno come unica ragion d’essere la valorizzazione del capitale). Non muove dal riconoscimento, ad ogni partito anticapitalistico, della piena dignità e legittimazione a perseguire e a edificare una società anticapitalistica singolare, particolare, originale e unica. Marx ed Engels avevano intuito, infatti, che sono i detentori (e oggi anche i gestori) dei grandi capitali a voler distruggere le nazioni e prima ancora ad avere interesse a distruggerle. Si legge in altro luogo del manifesto:

Il bisogno di uno smercio sempre più esteso per i suoi prodotti sospinge la borghesia a percorrere tutto il globo terrestre. Dappertutto deve annidarsi, dappertutto deve costruire le sue basi, dappertutto deve creare relazioni.


Con lo sfruttamento del mercato mondiale la borghesia ha dato un'impronta cosmopolitica alla produzione e al consumo di tutti i paesi. Ha tolto di sotto i piedi dell'industria il suo terreno nazionale, con gran rammarico dei reazionari. Le antichissime industrie nazionali sono state distrutte, e ancora adesso vengono distrutte ogni giorno. Vengono soppiantate da industrie nuove, la cui introduzione diventa questione di vita o di morte per tutte le nazioni civili, da industrie che non lavorano più soltanto le materie prime del luogo, ma delle zone più remote, e i cui prodotti non vengono consumati solo dal paese stesso, ma anche in tutte le parti del mondo. Ai vecchi bisogni, soddisfatti con i prodotti del paese, subentrano bisogni nuovi, che per essere soddisfatti esigono i prodotti dei paesi e dei climi più lontani. All'antica autosufficienza e all'antico isolamento locali e nazionali subentra uno scambio universale, una interdipendenza universale fra le nazioni. E come per la produzione materiale, così per quella intellettuale. I prodotti intellettuali delle singole nazioni divengono bene comune. L'unilateralità e la ristrettezza nazionali divengono sempre più impossibili, e dalle molte letterature nazionali e locali si forma una letteratura mondiale”.

E’ la suprema regola secondo la quale occorre massimizzare la valorizzazione del capitale ad essere contraria alle nazioni, nel senso che i titolari e i gestori di grandi o medi capitali perseguono l’omogeneità dei consumatori, l’apertura e la scomparsa dei confini, la libertà di circolazione delle merci, del lavoro e dei capitali. Gli appartenenti ad una nazione che hanno accumulato un certo capitale, nonché gli appartenenti a quella medesima nazione che si trovino a gestire grandi capitali, hanno interesse a “investire” o semplicemente ad acquistare azioni e in genere titoli ovunque reputino che gli investimenti o i titoli siano redditizi. Il capitale risparmiato da un imprenditore di una nazione con cento anni di svolgimento di un’attività di impresa e quindi con l’apporto di lavoratori di una nazione (italiani per esempio) durante cento anni, a un certo punto è impiegato per acquistare materie prime da soggetti dello stato A, per produrre nello stato B e vendere nello stato C, anche se né A, né B e né C sono gli stati originari nei quali è stato accumulato quel capitale. Il capitalismo deve funzionare. E per funzionare non deve trovare attriti: giuridici; religiosi; posti da secolari tradizioni; derivanti dalla eterogeneità dei consumatori. Il capitale ha la vocazione per lo spazio planetario e lo vuole senza frontiere.

Siamo dinanzi ad un apparente paradosso. Il capitale può riuscire a massimizzare la propria valorizzazione soltanto abbattendo e distruggendo sempre più gli Stati Nazione; o comunque internazionalizzandosi rallenta la caduta tendenziale del tasso di profitto. Gli anticapitalisti – che è bene siano uniti nonostante tutte le possibili diversità di obiettivi (in realtà gli anticapitalismi si differenziano per la diversità dei valori o beni che in via prioritaria si vogliono sottrarre alla logica necrofila del capitale) – “devono farsi nazione” (come scrivevano Marx ed Engels con riguardo ai Comunisti); devono conquistare il potere nelle nazioni e cominciare così o a sottrarre al capitale, in uno o più luoghi della terra, il dominio sulla nuda vita degli uomini; o, comunque, a ridurre l’ambito e le forme di quel dominio. Per il capitale le nazioni sono un ostacolo. Per gli oppositori del capitalismo – ossia della suprema regola secondo la quale lo scopo dell’attività sociale dell’umanità deve essere quello di massimizzare la valorizzazione del capitale – l’edificazione di una nazione anticapitalistica è l’obiettivo.

Se oggi l’anticapitalismo, in tutte le sue forme, nuove e vecchie (compresa quella, “relativa” ma significativa, della socialdemocrazia) è così debole, ciò è dovuto allo stato oggettivo in cui sono state ridotte molte nazioni, ma anche e soprattutto alla irragionevolezza degli anticapitalisti, i quali, osteggiando il concetto di nazione, sono destinati a restare nello stato velleitario delle declamazioni fumose, posto che il loro obiettivo dovrebbe essere quello di impegnarsi per costruire nazioni anticapitaliste. E va da sé che, se è giusto solidarizzare con anticapitalisti di altre nazioni ed eventualmente partecipare a una o altra battaglia reputata importante, è pur sempre ovvio che, per mille ragioni, gran parte dell’impegno di ogni anticapitalista dovrebbe essere indirizzato ad indebolire, all’interno della propria nazione, la forza della regola sulla quale affondano pressoché tutte le costituzioni nazionali: il capitale si deve valorizzare.

Fonte: Appello al popolo

DIBATTITO FIAT, E’ TEMPO DI UN’ALLEANZA PER IL LAVORO – PER L’AZIENDA I LAVORATORI E LA CITTA’ SONO VARIABILI INDIPENDENTI DAL PIANO INDUSTRIALE

Il Consiglio comunale aperto sul caso Fiat rende merito alla responsabilità delle istituzioni pubbliche che vogliono impegnarsi sulle prospettive di sviluppo del proprio territorio e che devono, in momenti sempre più difficili, rappresentare le insicurezze verso il futuro e il disagio attuale e concreto delle proprie popolazioni.

Non si può riconoscere altrettanta responsabilità alla Fiat che, nonostante l’accezione Torino del proprio acronimo, si è volutamente e assertivamente sottratta ad ogni rassicurazione e a ogni anticipazione delle previsioni del proprio piano industriale.

Come Marchionne ha tenuto a precisare più volte che Fabbrica Italia non è un contratto con il Paese, ma un piano dell’azienda quindi non concertabile con il sistema dei poteri pubblici, così oggi il rappresentante delle relazioni esterne Dr. Rebaudengo ha sottolineato che la presenza al dibattito è solamente atto di irripetibile cortesia.

Le prospettive imprenditoriali, quindi, sono state illustrate certo come dipendenti dai processi di finanziarizzazione e globalizzazione, certo come correlati con il clima delle relazioni sindacali, ma altrettanto indifferenti rispetto alle aspettative di coesione sociale del nostro territorio: l’unica variabile indipendente per Fiat risulta proprio il futuro dei lavoratori e della città e della regione in cui non solo l’impresa è nata ed è cresciuta, ma da cui ha ricevuto molto per il lavoro dei propri dipendenti e per le facilitazioni e agevolazioni consentite dagli enti locali.

Paradossalmente le tradizionali politiche di sostegno e di accompagnamento che le istituzioni pubbliche attivano per l’occupazione e per gli aiuti alle imprese, anche ai fini di scongiurare delocalizzazioni, non si sono potute delineare nell’incontro odierno in conseguenza dell’atteggiamento da “mani libere” che Fiat ha premesso.

Sarà probabilmente più una questione di stile – esplicitamente insofferente verso l’autorità delle assemblee elettive – che una reale indisponibilità a discuterne, stanti invece i precedenti, buon ultimo TNE e l’area Mirafiori, cui invece Fiat ha attinto a piene mani.

E’ evidente ormai che le istituzioni non possono illudersi di trovare le forme migliori (suadenti? diplomatiche?) per cercare un dialogo cui l’interlocutore vuole sottrarsi, fintanto che gli converrà.

E’ indispensabile uscire da questa solitudine, ora delle organizzazioni sindacali ora delle istituzioni locali, che alternativamente o congiuntamente chiedono a Fiat di rispettare gli accordi, per aprire una stagione di alleanze: il rischio dei lavoratori Fiat non è solo delle loro famiglie, ma si riverbera sui lavoratori dell’indotto, si riflette sugli stili di vita e dei consumi quindi sull’economia della città.

Come un anno fa il 12 gennaio quando una calorosa fiaccolata attraversava la città e coinvolgeva tutti i cittadini è tempo di un alleanza per il lavoro, con le imprese, con le categorie economiche, con il sistema finanziario, con i soggetti sociali. E Fiat non potrà prescindervi.

Fonte: Eleonora Artesio

ISAP DI VOLPIANO, SOLIDARIETA’ AI LAVORATORI IN PRESIDIO PERMANENTE E INTERROGAZIONE IN CONSIGLIO REGIONALE

Venerdì scorso mi sono recata a portare la propria solidarietà e sostegno ai lavoratori della Isap di Volpiano in presidio permanente da diversi giorni per scongiurare la chiusura della propria fabbrica.

La Isap produce lame circolari per legno e per metalli dal 1930 e attualmente occupa 30 lavoratori. Nel 2009 il 60% dell’azienda è stato rilevato dalla Stark di Trivignano Udinese, specializzata nelle stesse produzioni.

Dopo questa acquisizione, l’azienda ha presentato un piano industriale che, come denunciano le organizzazioni sindacali, non si è mai concretizzato e, conseguentemente, la Isap ha subito un tracollo economico: un passivo di 1,7 milioni nel bilancio 2009 e una perdita di 300.000 nel 2010.

Attualmente molte commesse destinate alla Isap vengono dirottate verso altre aziende del Gruppo Stark e il 15 novembre 2011 la Stark ha comunicato l'intenzione di chiudere lo stabilimento di Volpiano a causa delle forti difficoltà finanziarie e di mercato.

Auspichiamo che dal tavolo di crisi richiesto dalle organizzazioni sindacali al Comune di Volpiano, alla Provincia e alla Regione, già attivato con un primo incontro che si è tenuto presso il Comune venerdì 25, possano scaturire azioni atte alla salvaguardia dell’occupazione richiamando l’azienda alle proprie responsabilità.

Abbiamo presentato un’interrogazione urgente in Consiglio Regionale per sapere quali strumenti l’amministrazione regionale intenda mettere in campo per scongiurare l’ennesima delocalizzazione produttiva, tutelare l’occupazione e per spronare ad un opportuno approfondimento delle reali dinamiche finanziarie che causerebbero la chiusura dell’azienda.

Torino, 28 Novembre 2011

Fonte: Eleonora Artesio

I.S.A.P Un affare “tagliente”

Questa è la storia di una famiglia, o meglio dire di 30 famiglie e di un operaio, o meglio dire di 30 operai che da 9 giorni hanno deciso di occupare lo stabilimento I.S.A.P di Volpiano in provincia di Torino.
Roba da pazzi direbbe qualcuno, 30 eroi direbbe qualcun altro, non so cosa rispondere direbbe il restante numero di persone che non sanno o che più semplicemente non vogliono sapere. Peggiore sarebbe sapere ma far finta di niente.

Questi 30 operai, padri di famiglia, professionisti riconosciuti nel mondo come i “guru” delle lame industriali (la I.S.A.P produce lame circolari per legno e metalli ed è produttiva e presente ai vertici del mercato dal 1930) non vogliono essere chiamati eroi, ne pazzi, ne in nessun altro modo.
Hanno voglia di gridare al mondo che sono stanchi, che nonostante gli acciacchi hanno ancora qualcosa da dare a questa società che mai come ora ha voltato loro le spalle e che mai nella storia, istituzionalmente parlando, li ha visti così protagonisti.
In primo piano, si. Sentono di dover essere loro a risolvere quei problemi che affliggono e incancreniscono la loro società, il loro collettivo e il marchio che per tantissimi anni ha visto la luce degli scaffali più alti del mercato mondiale.

Ma ora entriamo nello specifico, spieghiamo perchè questi UOMINI hanno incrociato le braccia e si sono seduti davanti al portone della loro azienda.
La I.S.A.P di Volpiano è stata, nel 2009, rilevata per il 60% da un'azienda gemella, ossia specializzata nelle stesse produzioni, chiamata STARK che è situata a Trivignano Udinese, provincia del capoluogo Friulano.
Da subito adotta un piano industriale apparentemente funzionale ma che ad oggi non si è mai concretizzato e di fatto nel 2011 arriva inevitabile un tracollo economico che porta l'I.S.A.P ad un preoccupante -1.700.000 €. Le stesse organizzazioni sindacali hanno richiesto l'immediata istituzione di un tavolo di crisi dopo che il 15 novembre la STARK ha comunicato l'intenzione di cessare l'attività dello stabilimento volpianese che già si è vista privare delle proprie consegne che vengono dirottate verso gli altri stabilimenti del gruppo (8 in tutto il mondo tra Italia, Brasile, Cina e Germania).

Il 24 novembre, gli operai e i loro delegati sindacali in assemblea permanente all'interno dello stabilimento I.S.A.P, hanno avuto modo di discutere del loro futuro con le alte sfere aziendali in un'aula nel Municipio di Volpiano. Diverse ore di discussione che però hanno lasciato tutti con in mano un pugno di mosche; i delegati sindacali infatti, hanno richiesto il ripristino della loro attività per tutti e 30 gli operai ed impiegati dello stabilimento. Come risposte, vaghe e poco concrete, hanno ricevuto la comunicazione dell'intenzione di creare una nuova società ed è stata usata la frase “con operai in affitto.
Basiti ed increduli, i delegati sindacali di FIOM e CISL hanno ribadito che non intendono subire ulteriori ricatti e che non possono permettere che in questa nuova società ci sia posto solo per 10 di loro, lasciando così altre 20 famiglie ad un futuro incerto. Se non altro, oltre il danno anche la beffa: nel 2006, in base ai livelli, l'azienda ha assorbito il superminimo imposto dal ccnl.
Detto ciò allarghiamo i nostri orizzonti, andiamo un attimo fino in friuli.
Lo stabilimento STARK di Trivignano conta un centinaio di operai che ad oggi lamentano problemi di gestione nei riguardi dei “gestori” dell'attività.
Anzi, si sentono letteralmente presi “A PESCI IN FACCIA” quando vengono a scoprire che i loro colleghi piemontesi rischiano di chiudere i battenti e soprattutto quando scoprono che molti dei loro macchinari, che loro sapevano in fase di revisione, erano invece stati venduti e trasportati nello stabilimento Cinese.

Cominciano dunque a farsi sentire questi signori con le tute blu, tanto che nella serata del 25 novembre viene presentata un'interrogazione al Consiglio Regionale del Piemonte durante un assemblea con operai, delegati ed operatori sindacali e la prima firmataria Eleonora Artesio, consigliere regionale Federazione della Sinistra in Piemonte. Mi rendo conto che le righe si stanno accumulando e che leggere stia diventando un po' noioso con tutte queste cose tecniche.

Se ti va puoi interrompere qua, però io vorrei che tu imparassi a conoscere queste persone.
La cosa che più mi ha fatto effetto la prima volta che ci siamo incontrati è stato questo signore sorridente con dei grandi baffi ingrigiti del tempo che si è presentato a noi per primo...
Con il passare dei giorni mi accorgo che che questi giovanotti, tanto più giovani non sono.
Sono padri di famiglia, operai vecchio stampo che oramai hanno la tuta blu addosso come una seconda pelle e a cui la pesantezza delle scarpe anti-infortunistiche è diventata la comodità delle pantofole di casa.
Vado profondamente orgoglioso di conoscere questi trenta individui che racchiudono tra loro l'anima di una nazione che piano piano sta andando verso un tracollo che è inevitabile. Loro, che tra un vaffanculo ed un altro, nonostante tutto, ancora hanno il coraggio di sorridere e nulla di più mi fa sentire al caldo che trovarli a discutere in queste sere fredde, quando a stare per strada ti si congela perfino l'anima, tutti insieme davanti ad un fuoco.

Questo fuoco che non si deve spegnere perchè deve rappresentare la speranza e la luce per un futuro che loro, a differenza di tanti giovani, vedono ancora possibile.
Non mi dilungo oltre se non per condividere ancora una frase che personalmente trovo di grande ispirazione.

"Sogna e sarai libero nello spirito, lotta e sarai libero nella vita" Ernesto “El Chè” Guevara
Tommy (PRC Settimo Torinese)

mercoledì 23 novembre 2011

Giorgio Cremaschi: Ripartiamo dal «no» a Monti

Questo non è un governo tecnico ma uno dei più politici e ideologici tra i governi che abbiamo mai avuto. È il governo che più nettamente sposa l'ideologia neoliberale. Perché allora dovremmo baciare il rospo, come sostiene Revelli?

Mi dispiace tanto, ma questa volta non sono proprio d'accordo con il mio amico Marco Revelli. Io non bacio il rospo e mi preparo a fare tutto quel che mi è possibile per mandarlo via. Confesso che non sono sceso in piazza con la bandiera tricolore per festeggiare la caduta di Berlusconi. Ho passato questi ultimi 17 anni a combattere Berlusconi, la sua cultura, le sue prepotenze. Prima ho fatto lo stesso con il suo maestro Craxi. Eppure la sera del 12 novembre non l'ho sentita come una liberazione. I paragoni storici che si stanno facendo mi paiono fuorvianti. Come Revelli non vedo nessun 25 aprile in atto. Non mi risulta che il governo di allora fosse di larghe intese tra Cln e Repubblica sociale. Ma non vedo nemmeno un chiaro 25 luglio, se non per l'annuncio del governo Badoglio: «La guerra continua».
Se proprio si deve ricorrere ai paragoni storici, bisogna tornare all'Europa del 1914. Al suicidio di un continente nel nome della guerra e del nazionalismo, e alla corrispondente dissoluzione di gran parte della sinistra socialdemocratica e dei sindacati. Oggi per fortuna non siamo a quel punto, ma è sicuramente in atto un suicidio e una dissoluzione dell'Europa e della sinistra in essa. La guerra del debito, scatenata in tutto il continente, sta mettendo in crisi democrazia e conquiste sociali. Tutti i governi europei sono soggetti alle stesse scelte e agli stessi indirizzi economici. Poi, benignamente, questa tirannia finanziaria ci concede la facoltà di accettarla. Ma non si può dire di no.

A me tutto è più chiaro da quando Marchionne disse agli operai di Pomigliano che se volevano lavorare, nell'epoca della globalizzazione, dovevano rinunciare a tutti i loro diritti. E aggiunse che potevano solo votare sì al referendum sul suo diktat, perché il no avrebbe comportato la distruzione dell'azienda. Marchionne, fino a poco tempo prima incensato come borghese illuminato, così come oggi Monti, ottenne il consenso pressoché unanime del parlamento italiano.

Il governo Monti è espressione diretta del grande capitale italiano e internazionale, con suoi intellettuali organici di valore. È la prima volta che questo avviene nella storia della nostra repubblica ed è sicuramente un segno della crisi totale della classe politica. In questi venti anni il padronato italiano ha alternato politiche di rottura populista e politiche di concertazione democratica. L'obiettivo era sempre lo stesso: contenere il salario ed estendere flessibilità e precarietà, allargare la sfera del profitto con le privatizzazioni. Quando le condizioni lo permettevano e si sentiva particolarmente forte, il padronato italiano ricorreva a Berlusconi e alla destra. Se la risposta sociale e politica cresceva, allora si tornava alla concertazione. Quest'ultima ammorbidiva le scelte, le rallentava, ma non ne fermava la direzione di fondo.

La novità è che oggi il sistema economico dominante salta qualsiasi mediazione politica, non si fida più non solo di Berlusconi, ma anche dell'opposizione e decide di agire in proprio. Altro che governo tecnico, questo è uno dei più politici e ideologici tra i governi della repubblica. È il governo che più nettamente sposa l'ideologia neoliberale.

La crisi economica mondiale ha travolto la ridicola classe politica italiana. Sarà un puro caso, ma tutti i paesi piigs sono stati posti rapidamente sotto controllo. Se si fossero messi assieme, se avessero fatto una comune politica del debito, come i paesi dell'America Latina, banche tedesche e Fmi sarebbero dovuti venire a patti.

Anche a me fa piacere la sobrietà e lo stile del nuovo governo, contrapposto ai nani e alle ballerine, ai bordelli, alle barzellette che facevano piangere, al degrado culturale e civile che ispirava quello precedente. Tuttavia la mia esperienza sindacale mi ha insegnato che il padrone per bene può farti molto più male del padrone sfacciato e impresentabile. Questo governo ha un mandato chiaro, quello della Bce. È il mandato di quel capitalismo internazionale che pensa di affrontare la sua stessa crisi con riforme neoliberali, come negli ultimi trent'anni. Con la solita ipocrisia dell'equità e del rigore si mettono in discussione ancora una volta le pensioni dei lavoratori, la tutela contro i licenziamenti, i contratti, i diritti punto e basta. Si risponde al referendum sull'acqua con le privatizzazioni e si annuncia quella mostruosità giuridica ed economica del pareggio di bilancio in Costituzione. Si risponde agli studenti in sciopero esaltando la riforma Gelmini. Sì, certo, la sobrietà del governo produrrà dei contentini. Un po' di privilegi di casta politica verranno tagliati, ma solo per giustificare i sacrifici sociali. Si annuncia che non ci sarà massacro sociale. Ma questo è già in atto. Sono la crisi e la recessione che stanno producendo una drammatica selezione sociale. Il governo può anche non volere il massacro, ma se opera con riforme neoliberali lo agevola e lo accresce.

È la ricetta neoliberista che è destinata a fallire. Perché non si riuscirà, per quanti sacrifici si impongano, a far ripartire il meccanismo della globalizzazione. Per questo sarebbe necessario prendere atto della crisi di sistema, cosa che Monti nella sua relazione programmatica si è ben guardato dal fare. E costruire una vera alternativa. Il debito non può essere pagato da un'economia in recessione, pretendere di farlo a tutti i costi significa aggravare la recessione e appesantire il debito. È successo alla Grecia e succederà all'Italia, nonostante la professionalità di Monti. Bisogna partire dall'opposizione al nuovo governo per costruire un'alternativa economica, sociale e politica al programma della Bce e del capitalismo internazionale. Sarà dura, ma si riparte dal no a questo governo.

il manifesto 22.11.2011